Perché licenziare il proprio advisor?

La cancellazione delle obbligazioni At1, per ben 16 miliardi di franchi, decisa dalla Finma nell’ambito dell’accordo sul salvataggio di Credit Suisse ha riaperto un tema che non è solo specifico dei bond bancari di tipo subordinato, ma va a toccare tutte le componenti di un portafoglio e la capacità dell’investitore di monitorarle.
Nessun investitore vuole ‘sbagliare’ e ritrovarsi in portafoglio uno strumento che, al verificarsi di alcune circostanze, vede completamente azzerato il suo valore. Eppure, nonostante la maggioranza degli investitori privati (ma anche alcuni istituzionali, malgrado gli strumenti di cui dispongono) fosse convinta di non avere in portafoglio rischi di questo tipo, in tanti si sono ritrovati con una brutta sorpresa.
Portafogli di medio-grande dimensione prevedono un certo grado di complessità, che aumenta in presenza di una quota rilevante di strumenti ‘diretti’, singole azioni e obbligazioni. Progressivamente, il numero di posizioni in portafoglio tende ad aumentare; non va quindi sottovalutato l’effetto ‘stratificazione’. Inoltre, la singola consulenza o proposta d’investimento risponde a fattori che sono legati a specifici momenti o condizioni di mercato. Passato qualche anno, quegli stessi investimenti potrebbero rivelarsi inadatti rispetto al nuovo contesto. Questo significa che le scelte effettuate 1, 2 o 3 anni fa possono invecchiare nel tempo e non risultare più in linea con la strategia, con le mutate esigenze o con l’evoluzione di emittenti e debitori presenti in portafoglio.
Questo è stato anche il caso delle obbligazioni subordinate bancarie, le uniche, o quasi, a restituire un rendimento in franchi apprezzabile in un periodo di tassi bassi o sottozero, e per questo inserite nei portafogli di diversi investitori. Quello che fino al 2021 sembrava un profilo con una buona tenuta e un rendimento accettabile, nel giro di qualche mese è passato dalla parte ‘sbagliata’ del mercato, senza particolari avvisaglie.
Una ricerca condotta da Morningstar segnala come la rottura della relazione con il gestore sia un’eventualità che non si verifica troppo spesso ma, al contrario, il rapporto fra consulente e cliente tende a trasmettersi nel tempo anche alle successive generazioni.
Individuare l’errore specifico, a posteriori, è fin troppo semplice; tuttavia, è necessario chiedersi come mai questo errore sia ricorrente. Ripercorrere e dividere in fasi il processo d’investimento aiuta.
- L’investitore ha della liquidità da investire e degli obiettivi da perseguire, fa delle considerazioni (da solo o accompagnato) e delinea un profilo di rischio.
- Sulla base dei risultati dell’analisi, si sceglie l’asset allocation di primo livello.
- Definita l’allocazione degli attivi, si scelgono i singoli strumenti.
Tre fasi che all’investitore sembrano rappresentare la quasi totalità di un buon processo d’investimento. La verità è però che questi passaggi rappresentano solo una parte (forse neanche la più importante) del lavoro. Infatti, dirigere sapientemente un portafoglio significa realizzare un sistema strutturato di monitoraggio (idealmente con cadenza almeno mensile) che contempli la verifica del posizionamento di ogni strumento rispetto al mercato, cercando di individuare preventivamente il deterioramento del profilo di rischio.
Introdurre una pratica di monitoraggio, anche quando le borse sembrano rispondere al meglio, non è più un nice-to-have, come direbbero gli inglesi, ma forma di protezione altamente consigliata. Il fatto che la consulenza tradizionale abbia un approccio molto più intraprendente nella fase di proposta e inserimento degli strumenti in portafoglio è sintomatico di una disattenzione a questo tipo di servizio. I motivi sono principalmente i seguenti:
- Il cliente investitore tende a percepire un’elevata qualità del servizio quando vede proattività nelle prime fasi del processo (proprio perché poco consapevole dell’importanza del quarto passaggio);
- La controparte che offre il servizio di consulenza è spesso incentivata a dedicarsi maggiormente alle fasi di vendita e acquisto, piuttosto che a quella di monitoraggio (tendenzialmente meno remunerativa);
- La numerosità dei clienti e la complessità dei portafogli che un consulente si trova a dover supervisionare ne rendono complicato e dispendioso il monitoraggio.
Quali sono le priorità?

In sintesi, il monitoraggio è un’attività meno coinvolgente, i cui frutti, meno visibili, si producono nel lungo periodo. Spesso, per i motivi sopra segnalati, non è offerto a patrimoni di piccola-media entità, e non sempre, in modo realmente strutturato ed efficace, a quelli più significativi. È quindi compito dell’investitore ritagliarsi regolarmente uno spazio di tempo sufficiente a passare in rassegna le varie posizioni in portafoglio.
Quello che può sembrare un gesto meccanico e, nella maggior parte dei casi, privo di risvolti concreti (nel senso che poche volte all’azione di lettura della posizione conseguirà una modifica), aiuterà a prendere confidenza con il portafoglio e, di tanto in tanto, ad anticipare possibili risvolti negativi e rischi prima che si verifichino o che producano incidenti e perdite difficili da recuperare.
Qualcuno, giustamente, potrebbe pensare che nel lungo periodo la deficitaria attività di monitoraggio possa portare a performance insoddisfacenti, da cui potrebbe derivare una rottura con il proprio consulente finanziario o più in generale con la banca. La risposta, in apparenza semplice e affermativa, va nella direzione opposta. Infatti, una ricerca condotta da Morningstar segnala come la rottura sia un’eventualità che non si verifica spesso ma, al contrario, il rapporto fra consulente e cliente tende a trasmettersi nel tempo anche alle successive generazioni.
Tuttavia, al di là del fatto che i pochi cambiamenti si legano in parte al costo del cambiamento, è comunque interessante analizzare le motivazioni legate all’interruzione del rapporto. Secondo il sondaggio, solamente in poco più di un caso su dieci l’investitore cambia consulente finanziario per via dei rendimenti conseguiti, deludenti rispetto alle aspettative.
I sondaggi sembrano confermare che nella maggior parte dei casi bisogna investire energie affinché il cliente percepisca un’elevata qualità del servizio ricevuto, e questo significa migliorare le proprie capacità comunicative. Performance e costi, infatti, non sono ai primi posti tra i motivi della chiusura di un rapporto.
Al contrario, quello che emerge è che i clienti danno maggiore importanza alla qualità percepita del servizio, soprattutto da un punto di vista relazionale. L’attenzione al lato umano e al rapporto con la persona risultano quindi più importanti rispetto alla performance di portafoglio.
In pratica, i sondaggi sembrano confermare quello che alcuni consulenti hanno capito già da diverso tempo, ovvero che nella maggior parte dei casi bisogna investire energie affinché il cliente percepisca un’elevata qualità del servizio ricevuto, e questo significa migliorare le proprie capacità comunicative e di interazione con il cliente. Performance e costi, infatti, non sono ai primi posti tra i motivi della chiusura di un rapporto.
La qualità della consulenza finanziaria e dei servizi prestati dovrebbe però includere anche il ‘post vendita’, e alcuni investitori in effetti percepiscono mancanze significative in questa fase. Vi è quasi sicuramente, in molti casi, un margine di miglioramento significativo.
Nel frattempo, però, dare per scontato che la controparte a cui ci si affida per gli investimenti svolga questo servizio al posto del cliente può rappresentare un errore di valutazione; motivo per cui gli investitori dovrebbero, laddove non l’abbiano già fatto, equipaggiarsi meglio.
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