La grande Crisi finanziaria del 2008-12 ha avuto le banche quale suo epicentro. Preceduta da un boom del credito accompagnato dal rilassamento degli standard di controllo del rischio da parte delle banche e dalla successiva formazione di bolle immobiliari, è stata scatenata dall’aumento di tassi d’interesse e dalla discesa dei prezzi degli attivi utilizzati come collaterali.
L’aumento delle sofferenze sui portafogli di credito ha eroso i capitali propri e spinto i Governi ad agire per evitare gli errori della Grande Depressione, sfociati in fallimenti a catena delle banche, contrazione del credito e quindi delle imprese. In certi casi, i Governi hanno agito come garanti e le Banche Centrali da creditori di ultima istanza. In altri, i Governi hanno ricapitalizzato le banche.
Nell’Eurozona quest’ultima modalità ha prodotto un forte aumento dei debiti pubblici che ha messo sotto stress diversi Paesi membri e di nuovo il sistema bancario, detentore di obbligazioni governative. A dispetto di tutti gli sforzi, le economie sviluppate hanno subito una contrazione del credito, più ampie o più lunghe a seconda dei casi. Il “credit crunch” ha provocato una distruzione permanente di capacità produttive. Non deve quindi stupire che gli eventi del 2008-12 abbiano prodotto un aumento marcato della regolazione bancaria e delle prerogative delle autorità di controllo.
Il post 2008
Per risolvere il problema alla radice, gli impieghi delle banche sono stati subordinati alla dotazione adeguata di capitale. Il tetto sulla leva nei bilanci serve a rimuovere il rischio di rivedere nuovi boom del credito bancario. Il settore è frammentato, ma la concentrazione viene per quanto possibile frenata.
La formazione di banche troppo grandi aumenterebbe il rischio sistemico in caso di problemi specifici e il pericolo che il denaro dei contribuenti venga di nuovo utilizzato. La frammentazione viene poi considerata necessaria per garantire la competizione tra le banche a vantaggio dei clienti, ovvero le imprese e le famiglie. All’interno dell’Ue, la concentrazione è inoltre vista con sospetto da quei Paesi che rischiano di vedere le proprie banche acquistate da attori esteri e di trovarsi quindi in situazione di forte dipendenza.
La formazione di banche troppo grandi aumenterebbe il rischio sistemico in caso di problemi specifici e il pericolo che il denaro dei contribuenti venga di nuovo utilizzato. La frammentazione viene poi considerata necessaria per garantire la competizione tra le banche a vantaggio dei clienti, ovvero le imprese e le famiglie.
Dal 2008, l’investitore azionario è confrontato a un’evoluzione frustrante delle azioni del settore bancario nelle economie avanzate. Le regole sul capitale e la desiderata frammentazione del sistema hanno creato un mondo in cui l’intensità in capitale dell’attività riduce le possibilità di crescita interna e la redditività dei mezzi propri. Le banche non possono d’altro canto aumentarla attraverso fusioni e acquisizioni che invece permetterebbero ampie economie di scala, oltre a migliorare le prospettive di crescita esterna. La bassa redditività e i bisogni in capitale limitano inoltre lo spazio per aumentare la bassa distribuzione agli azionisti.
L’estensione dell’edificio normativo ha senza dubbio ridotto i rischi sistemici, ma ha reso troppo bassa la reddittività delle singole banche aumentandone i rischi specifici che restano ben superiori alla media del mercato. Sono per di più mal retribuiti dai dividendi e dalle prospettive sugli utili.
In alternativa all’attesa di migliori condizioni d’entrata, ovvero prezzi più bassi e dividendi più alti che remunerino adeguatamente i rischi, l’investitore può cercare ed esaminare le rare situazioni speciali in cui il rischio è più contento e meglio remunerato, ovvero banche che seguono politiche di distribuzione più attraenti della media, ben capitalizzate, con portafogli di credito di maggior qualità, meglio ancora se diversificate in attività di nicchia e attive in economie stabili.
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