TM   Marzo 2024

Vicini al 1984 orwelliano

Con il Digital Services Act ora in vigore nell’Ue, si è creato un potente strumento censorio nelle mani dello Stato, con il rischio di sopprimere qualsiasi parere potenzialmente divergente. Un’analisi di Stelio Pesciallo, avvocato e notaio presso lo Studio 1896, Lugano.

Stelio Pesciallo

di Stelio Pesciallo

Avvocato e notaio presso lo Studio 1896, Lugano

Da qualche tempo va di moda il termine ‘fake news’, che sta per notizia falsa o falsificata, e sempre più pressanti si fanno le voci di chi vorrebbe che vengano emanate misure al fine di impedirne la diffusione. In sé il fenomeno non è nuovo. Nella storia recente e lontana si contano innumerevoli casi di diffusione di notizie fasulle, o da certuni ritenute tali, su personaggi o vicende storiche e a nessuno è saltato in mente di istituire un’autorità con il compito di intervenire di imperio al fine di impedirne la diffusione.

La questione è divenuta attuale per le dimensioni che il fenomeno ha assunto o potrebbe assumere nell’era di internet. Ed è così che gli alacri legislatori dell’Unione europea hanno pensato bene di aggiungere una nuova legge agli innumerevoli regolamenti che inquinano il paesaggio europeo con il Digital Services Act entrato in vigore il 17 febbraio di quest’anno. Questa legge prevede che le società che offrono servizi digitali intervengano contro messaggi o notizie dai contenuti illeciti. Ma non solo: anche ciò che non corrisponde ai valori europei (e chi decide quali siano?) o che sia giudicato comunque dannoso deve essere cancellato.

Come giustamente mette in rilievo il pubblicista ed esperto finanziario Marc Friedrich in un articolo recentemente pubblicato sul settimanale Die Weltwoche, è soprattutto il concetto diffuso di contenuti dannosi o non conformi ai valori che deve preoccupare in quanto oggetto di interpretazione e pertanto passibile di funzionare da grimaldello per limitare la libertà di espressione.

C’è de chiedersi se, al fine di intervenire nel libero dibattito delle idee, la Commissione europea abbia in mente di istituire un Ministero della verità, del tipo già previsto da George Orwell nel suo romanzo 1984, nel quale uno dei tanti burocrati abbia la possibilità di decidere cosa debba essere creduto e cosa vada censurato. Già lo scorso anno questa legge era applicabile alle megasocietà del tipo di Meta e Amazon. Una delle prime vittime è stata la piattaforma di X, già Twitter, e da qualche giorno è oggetto di procedimento la piattaforma TikTok. Ora la medesima legge è stata resa applicabile anche alle piattaforme con meno di 45 milioni di utenti.

Di primo acchito le finalità di questa legislazione possono anche essere condivise nella misura in cui intendono allontanare dalle piattaforme contenuti illegali, rendere le stesse più trasparenti, proteggere i dati dei clienti e garantire la libera concorrenza nel settore dei vettori online.

A essere però problematico è che con la stessa le società che gestiscono le cosiddette piattaforme social sono tenute a intervenire subito, cancellando non solo contenuti giudicati illeciti ma anche contenuti ritenuti essere delle fake news. Alla stessa stregua anche gli altri utenti possono denunciare direttamente alle autorità dell’Ue contenuti da loro ritenuti essere fasulli.

In tal modo più o meno tutti diventerebbero censori o collaboratori di autorità censorie della libera espressione e le relative comunicazioni alle autorità preposte sono fatte apposta per creare un nuovo mostro burocratico destinato a ingoiare milioni di euro. Si noti poi che, se le piattaforme informatiche non dovessero adempiere tempestivamente ai loro obblighi di cancellazione di ciò che viene ritenuto essere una fake news, esse sarebbero passibili di multe salatissime, fino al 6% del loro fatturato annuale e che potrebbero ammontare quindi a miliardi di euro! Niente di più facile, quindi, che al fine di evitare ogni rischio le stesse siano portate a essere superdiligenti cancellando ciò che potrebbe essere anche lontanamente ritenuto non conforme alla pensata mainstream o politically correct; un po’ come le nostre banche che al fine di eliminare ogni rischio tendono a inoltrare all’autorità preposta più comunicazioni di sospetto riciclaggio di quanto oggettivamente necessario.

Ancora più preoccupante è un’ulteriore modalità introdotta da questa legislazione denominata ‘meccanismo di crisi’. Se la Commissione europea, in caso di crisi ad esempio pandemica o di guerra, lo ritenesse necessario, potrebbe obbligare le piattaforme a pubblicare manifesti atti a orientare il pubblico. Niente di più facile che anche qui possa essere instaurato un meccanismo non tanto informativo ma soprattutto manipolativo delle coscienze da parte dello Stato, che assegni a quest’ultimo il monopolio dell’informazione in determinati ambiti o momenti con la facoltà di impedire la pubblicazione di pareri divergenti.

Se ci siamo espressi qui su una regolamentazione europea è perché la stessa potrebbe avere effetto anche in Svizzera vista la portata globale delle piattaforme online. Ma non solo: l’esperienza purtroppo insegna che legislazioni europee prima o poi trovano applicazione anche nelle nostre leggi con la solita scusa che trattasi di standard internazionali a cui il nostro Paese non potrebbe sottrarsi.

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