Se l’ondata inflattiva seguita al Covid ha raggiunto quasi simultaneamente tutte le principali economie, di mese in mese la crescita e l’andamento dei prezzi si sono rivelati sempre più eterogenei nelle diverse aree. Gli Stati Uniti hanno continuato a sorprendere, mentre l’Europa da ormai più di un anno è in stagnazione, la Cina attraversa una fase particolarmente complessa e il Giappone sembra uscire lentamente da diversi decenni di depressione economica.
Ciò che però più interessa è l’inflazione e in particolare il dato degli Usa, che da soli rappresentano oltre la metà dei mercati finanziari globali. Ormai dall’anno si scommette soprattutto sulle mosse della Fed, e per quanto sembri un paradosso, il principale rischio del mercato è che l’economia vada troppo bene e i tagli dei tassi si allontanino. A impensierire sono dunque gli indici Pmi in espansione, la disoccupazione che è nuovamente diminuita al 3,8% e l’inflazione che è invece risalita al 3,5%, contrariamente alle attese di una riduzione. Cosa componga tale crescita, e quanto sia sostenibile, è un’altra storia. Nonostante tutto è ancora probabile una discesa dei tassi di mezzo punto, ma probabilmente dopo l’estate, per portarsi entro dicembre poco sotto il 5%.
In Europa, è stata la Svizzera ad aprire le danze anticipando ancora una volta la Bce, in virtù di un’inflazione di poco superiore all’1% e della forza del franco. La Bns, con una mossa a sorpresa, ha già tagliato i tassi di 25 bp a marzo, ed entro l’anno dovrebbe portarli all’1%. Al contrario la Bce. Se si è comportata in linea con le attese, non era però una decisione ovvia, con l’inflazione a marzo che ha sfiorato il 2,4%, e con l’economia quasi ferma da ormai un anno.
La crescita del Pil nel 2023 è stata dello 0,5% e non è atteso un significativo miglioramento. Se da un lato secondo alcuni sondaggi caldeggiano una ripresa del manifatturiero, il nuovo Patto di stabilità dovrebbe portare a una politica fiscale più restrittiva, rincarata in una decina di Paesi da una molto probabile procedura per deficit eccessivo.
Il Giappone, reduce da un lungo periodo di depressione economica e deflazione, rappresenta invece un caso a sé stante. La Bank of Japan ha aspettato molto prima di aumentare i tassi e lo ha fatto solo poche settimane fa per la prima volta da 17 anni, ponendo fine al periodo di tassi negativi durato otto anni e con la speranza di aver chiuso il lungo capitolo della deflazione, nonostante il debole quadro demografico
In questo quadro, anche in considerazione del suo mandato e della complessa Governance, la Bce aspetterà giugno per agire e si stima una riduzione di 0,75-1 punti percentuali nel corso dell’anno. Il Giappone, reduce da un lungo periodo di depressione economica e deflazione, rappresenta invece un caso a sé stante. La Bank of Japan ha aspettato molto prima di aumentare i tassi e lo ha fatto solo poche settimane fa per la prima volta da 17 anni, ponendo fine al periodo di tassi negativi durato otto anni e con la speranza di aver chiuso il lungo capitolo della deflazione, nonostante il debole quadro demografico.
Da non dimenticare l’andamento dell’economia cinese, che presenta un’inflazione vicina allo zero (solo lo 0,1% a marzo) e diversi elementi che fanno temere la deflazione, che potrebbe avere ripercussioni sul resto del mondo a partire dall’Europa. Occorre ricordare che, tra le grandi Banche, la People’s Bank of China era stata la prima ad alzare i tassi e a rendere meno accessibile il credito per alcuni settori come l’immobiliare, dando il la a una crisi del settore che non si è ancora risolta. Dopo la recente virata, sono però attesi ora stimoli fiscali e monetari.
Quest’anno gli andamenti economici (e dunque anche monetari) continueranno a essere eterogenei tra le principali aree economiche. Ciò avrà un impatto diretto sulle valute: anche se da un punto di vista fondamentale il dollaro è caro rispetto all’euro, in considerazione delle politiche monetarie divergenti il biglietto verde manterrà la sua forza nei prossimi mesi, è invece necessaria cautela sul franco.
Allungando lo sguardo ai prossimi anni, la diminuzione dei rendimenti potrebbe essere più importante di quanto si aspetti il mercato. Dal 2008 si registra un continuo aumento dell’indebitamento pubblico, sempre più oneroso per via dei tassi elevati. Proprio le politiche di gestione del debito e l’interazione di questa dinamica con le altre grandi tendenze in corso come il riarmo, l’invecchiamento della popolazione, la deglobalizzazione e la transizione energetica caratterizzeranno i prossimi anni.
Per affrontare queste sfide saranno necessari grandi investimenti e quindi i Governi avranno bisogno di costi di finanziamento contenuti, con dunque il ritorno a uno scenario di repressione finanziaria, con rendimenti dei titoli di Stato dell’Eurozona al di sotto dell’inflazione. A fronte di rendimenti del mercato obbligazionario ancora interessanti, sembra sensato sfruttarli, rendendoli duraturi con scadenze medio-lunghe e limitando la liquidità alle necessità, specie in euro.
Le obbligazioni di buona qualità hanno poche probabilità di perdere valore, già oggi presentano rendimenti reali positivi, e in caso di rallentamento dell’economia, il conseguente taglio affrettato dei tassi potrebbe spingere al rialzo le quotazioni delle obbligazioni di buona qualità con scadenza medio-lunga.
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