Ventitré anni: tanto pochi per qualsiasi vita, appena il tempo di un abbozzo. Eppure, a ottant’anni dalla prematura scomparsa, l’opera di Sylva Galli (1919-1943) dimostra un valore che va oltre la sua acerba esperienza e la compassione per la sua triste vicenda. La tenacia della sua passione – quel sacro fuoco che non appena terminate le scuole ginnasiali la portò a ‘pretendere’ di studiare disegno – non si scoraggiò davanti agli ostacoli, quando se già per gli uomini era difficile vivere di arte, nel caso delle donne restava quasi sempre un diletto da coltivarsi nel privato, specie quando arrivavano matrimonio e figli. Dovette inoltre fare i conti con l’infelice periodo storico che le chiuse le porte di Parigi dove, affamata di avanguardie, avrebbe ardentemente voluto recarsi. Raggiunse allora, in tasca il diploma della Scuola professionale di disegno di Lugano, il Technicum cantonale di Friborgo, per poi proseguire la formazione a Zurigo, allora uno dei centri culturali e intellettuali svizzeri più dinamici. Ma ventunenne già rientrava a casa con i primi sintomi della malattia che l’avrebbe portata alla morte. Non ne recano però traccia le opere, che invece dimostrano una vocazione spiccatissima e libera, sicurezza di segno, generosità di impasto, tavolozza cantante, freschezza e rapidità – per citare alcune delle qualità che le riconosceva un critico non certo generoso come Ubaldo Monico, scoprendola nella mostra allestita nel 1954 dalla famiglia nella ‘casa-memoriale’ della sua Bioggio.
La fortuna di Sylva è stata infatti postuma – in vita non si era ritenuta ancora pronta a esporre – ed è dovuta a un’altra tenacia, quella dei genitori: affezionatissimi alla figlia che avevano sempre assecondato nelle sue aspirazioni, ne hanno preservato le oltre 150 opere, fra disegni e olii realizzati in quel breve giro d’anni – ritratti, autoritratti, nudi, nature morte, paesaggi che già dimostrano l’acquisizione di un solido bagaglio, smarcato da ogni provincialismo meditando sulla lezione di impressionisti, espressionisti e fauves. Famiglia prestigiosa – i Galli annoverano anche due consiglieri di Stato, Antonio, zio di Sylva, e il cugino Brenno – riuscì persino a farle dedicare un’esposizione commemorativa dal Circolo degli artisti di Firenze, presso la Casa di Dante, donando poi due opere a Palazzo Pitti e una terza alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma. Risponde alla stessa volontà di perpetuarne la memoria, la scelta di vincolare la trasmissione delle opere alla successione fra i soli discendenti, chiamati a proseguire il lavoro di conservazione e valorizzazione del patrimonio.
E proprio da un invito degli eredi nasce la nuova mostra, in programma fino al prossimo 8 settembre, alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate. Un nuovo capitolo del filone di rassegne che dedica alle donne artiste. Per offrire uno sguardo più ampio, “il curioso caso di Sylva Galli” è stato contestualizzato in relazione alle pittrici che, come lei, proprio fra gli anni Trenta e Quaranta anche nella Svizzera italiana incominciavano a riuscire a fare dell’arte una professione, e non solo un diletto: a partire da Regina Conti, che sebbene del gruppo fosse la più anziana (nata nel 1888) fu quella che conobbe la maggior fortuna e fra le poche, per le sue condizioni agiate, a non dover affiancare l’insegnamento all’attività artistica. Insieme a lei, Anna Baumann-Kienast, Irma Bernasconi-Pannes, Mariangela Rossi, Anita Nespoli, Irma Giudici Russo, Anita Spinelli, Margherita Osswald-Toppi, Rosetta Leins, Adelaide e Valeria Borsa. Nomi illuminati dalle opere esposte in mostra accanto a quelle di Sylva Galli. Completano il percorso una sala introduttiva dedicata alle poche artiste delle generazioni precedenti (Adelaide Pandiani Maraini, Valeria Pasta Morelli, Marie-Louise Audemars Manzoni e Giovanna Béha-Castagnola) e un affondo su Simonetta Chiesa, figlia del pittore Pietro, e su sua moglie Germaine Petitpierre (1890-1963). Una personalità, quest’ultima, di notevole interesse per il progetto sociale che durante le estati trascorse a Sagno, in Val di Muggio, la vide mettere le sue doti di provetta ricamatrice a servizio della comunità locale femminile, dotandola così di un’alternativa dignitosa al lavoro malpagato nelle fabbriche del piano.
Resta fermo il fatto che le artiste di professione – analogamente alle intellettuali dell’epoca – appartenevano alle classi più benestanti ed erano quasi sempre nubili, con rarissime eccezioni come Anita Spinelli (peraltro fra le poche ad aver compiuto il ciclo completo di studi a Brera) che addirittura riuscì ad abbinare matrimonio, maternità e pittura. Molte fra loro, compresa una schiera di svizzero-tedesche stabilitesi nel Cantone, riuscirono a emergere ed esporre regolarmente grazie al sostegno della sezione ticinese del Lyceum, una filiazione del club londinese istituita nel 1939 con “l’intento di riunire e valorizzare le donne che nutrivano interessi culturali e sociali nei più svariati campi”. A tre mesi dalla scomparsa di Sylva, fu proprio il Lyceum a svelarla al pubblico con la prima esposizione personale, ordinata e introdotta dall’architetto Mario Chiattone.
Seppur fra tante difficoltà, la mentalità stava finalmente cambiando, come conferma già nel 1928 l’organizzazione della prima esposizione nazionale svizzera del lavoro femminile (Saffa – Schweizerische Austellung für Frauenarbeit), benché fra le partecipanti la presenza di pittrici fosse ancora molto scarna rispetto ad altre professioni artigianali e agli sviluppi poi registrati dalla seconda edizione del 1958. Frattanto le opere di diverse di artiste ticinesi cominciarono a entrare nelle collezioni del Museo Caccia di Lugano e in quelle del Cantone. Margherita Osswald-Toppi fu la prima, nel 1932, a ottenere un prestigioso incarico pubblico per una scultura, Italia e Svizzera, posta all’ingresso della stazione di Chiasso, mentre Rosetta Leins – autodidatta e poco più che trentenne – si vide assegnare nel 1939 la prestigiosa commissione per la decorazione della Sala dei Matrimoni di Palazzo civico a Lugano.
Della lotta progressista per l’affermazione del nuovo ruolo delle donne nella società, Sylva Galli venne eletta a emblema. La sua caparbietà e lo slancio con cui fino all’ultimo ha perseguito il suo sogno erano una lezione e un monito. Inutile chiedersi come si sarebbe sviluppato il suo talento se fosse vissuta più a lungo: è proprio questa sua presenza-assenza che diventa metaforica di quella femminile nel panorama artistico ticinese – e non solo – ancora fino a meno di un secolo fa. Archivi, cataloghi di esposizioni e articoli della stampa dell’epoca consultati per preparare questa mostra hanno lasciato intravedere anche tanti altri nomi che ora si auspica possano stimolare nuovi studi per essere riportati alla luce e valorizzati.
Pubblicato in Ticino Management Donna 96
Primavera 2024, da pagina 46
© Riproduzione riservata