TM   Marzo 2025

Ayomé nel cuore: una missione di speranza, chirurgia e umanità

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Da Lugano al Togo, e ritorno. Il racconto in prima persona di un’importante esperienza professionale e umana. Un viaggio di quelli da cui si torna diversi, certi che altri ne seguiranno. Non azioni clamorose ma piccoli gesti fatti con il cuore: la chirurgia non è solo tecnica, è un atto di speranza.

Martino Meoli

di Martino Meoli

Dr. med. specialista in Chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica, e founder di Diamond Medical

Ci sono viaggi che inizi pensando di portare qualcosa, e poi scopri di essere tu a ricevere il dono più grande. Il mio viaggio in Togo non è stato solo un viaggio geografico. Sono tornato in Ticino da pochi giorni. È stato un viaggio attraverso la resilienza, la speranza e la bellezza di un’umanità che sa brillare anche nelle difficoltà. Sono partito con una valigia piena di strumenti chirurgici, fili di sutura, kit di lipofilling e osteosintesi, ma ciò che non potevo mettere in valigia era la consapevolezza di quanto questa esperienza mi avrebbe cambiato. Ero lì per operare. Per aiutare. Per dare quello che potevo. Ma ad Ayomé ho ricevuto più di quanto avrei mai immaginato.

L’arrivo: un’altra realtà, un’accoglienza che toglie il fiato
Il viaggio è stato lungo, fatto di scali e attese tra Milano, Parigi, Abuja e Lomé. Ma la vera distanza non si misurava in ore di volo, bensì nelle differenze di vita, nei ritmi rallentati, nell’essenziale che diventa tutto.

Appena atterrato a Lomé, sono stato sopraffatto da un caldo avvolgente, da suoni nuovi, da colori vibranti. Il caos della città era animato da una logica tutta sua, fatta di strade polverose, mercati brulicanti e motociclette che sembravano sfidare ogni regola del traffico.

Dopo una notte di riposo e una visita al mercato di Lomé – un labirinto di odori, contrattazioni e artigianato locale – abbiamo intrapreso il viaggio verso Ayomé. Tre ore di auto attraverso paesaggi verdi e strade dissestate, con ogni chilometro che ci portava più lontano dalla modernità e più vicini alla realtà che ci aspettava.

Quando siamo arrivati, una folla ci aspettava nel parco fuori dall’ospedale. Centinaia di persone: pazienti, familiari, abitanti del villaggio. Alcuni erano lì da giorni, sperando in una possibilità di cura. Il capo villaggio ci ha accolto con parole che mi sono entrate nel cuore. C’era rispetto, riconoscenza, speranza. Ho sentito il peso della responsabilità. Eravamo lì per loro, ma sapevo che anche loro avrebbero lasciato qualcosa dentro di noi.

La chirurgia come atto di speranza.

L’ospedale di Ayomé è semplice, essenziale. Tre sale operatorie, strumenti minimi, elettricità che va e viene. Qui, nulla è sprecato. Ogni garza è preziosa, ogni punto di sutura è contato, ogni ago ha un valore.

Il primo giorno abbiamo visitato più di 40 pazienti. Storie difficili. Bambini con cicatrici da ustione che impedivano loro di muoversi, adulti con malformazioni mai trattate, persone con cheloidi che coprivano interi arti. Qui le ustioni sono ovunque. Per noi è impensabile, per loro è la normalità: bambini che giocano attorno al fuoco, famiglie che cucinano senza protezioni, case dove una fiamma accesa è un pericolo costante.

Abbiamo iniziato subito ad operare. E lì, ho capito cosa significa veramente “adattarsi”. L’energia elettrica va via all’improvviso? Accendi la lampada frontale e continui a operare. Non ci sono teli sterili monouso? Si riutilizzano coperte di stoffa sterilizzate il giorno prima. Non ci sono abbastanza strumenti? Si trova un’alternativa, si improvvisa, si crea.

Eppure, in ogni difficoltà, ho trovato il senso più puro della medicina. Un bambino di nove anni con le dita fuse insieme da un’ustione: dopo l’intervento si sveglia, guarda la sua mano e sorride. Una ragazza che aveva il viso segnato da un cheloide, ora può guardarsi allo specchio senza abbassare gli occhi. Un uomo che non riusciva più a camminare, ora può tornare a lavorare nei campi.

Non importa quanto sia difficile: ogni intervento è una vita che cambia
Legami umani che restano.
Questa missione non è stata solo un’esperienza professionale, ma un viaggio nelle relazioni umane. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone straordinarie. Dimitri Christoforidis, o meglio Dimi, è diventato più di un collega. Giorno dopo giorno, tra interventi fino a notte fonda e momenti di stanchezza estrema, è nata un’amicizia sincera. Quando lavori in queste condizioni, l’ego sparisce. Resta solo la collaborazione, il supporto reciproco, il rispetto profondo per chi è al tuo fianco.

E poi Don Valentino, l’uomo che ha reso possibile tutto questo. Un visionario, un sognatore, un uomo che ha lasciato il Togo per studiare in Svizzera ma non ha mai dimenticato la sua gente. Grazie a lui, Ayomé ha un ospedale, scuole, acqua potabile, elettricità. Il Dr. Francesco Marbach, il chirurgo che ha creduto in questo progetto sin dall’inizio. Lavorare con lui è stato un onore, una scuola di chirurgia e di umanità.

E poi ci sono stati Noel e Didier, i nostri angeli custodi. Non c’era problema che non sapessero risolvere, non c’era imprevisto che li cogliesse impreparati. Honoré, il nostro cuoco, ci ha nutrito con cibo e affetto. Dopo una giornata in sala operatoria, i suoi piatti erano un sollievo, un momento di ristoro e gratitudine. Alexis, il nostro autista, che ci ha portati ovunque con calma e sicurezza. Queste persone non sono semplicemente parte di un’organizzazione. Sono il cuore pulsante della missione.

Cosa resta dopo la missione?
Quando l’ultimo giorno ho salutato i pazienti, ho sentito un nodo alla gola. La missione era finita, ma non il nostro legame con Ayomé.
Ho imparato che la chirurgia non è solo tecnica. È un atto di speranza. Ho imparato che non servono grandi gesti per cambiare una vita. Servono piccoli gesti, fatti con il cuore. Ho imparato che in una stretta di mano riconoscente c’è più valore di quanto si possa immaginare.

Tornare a casa non è stato semplice. Ci vogliono giorni per metabolizzare le emozioni, per rientrare nella routine senza sentire il peso di quello che hai lasciato indietro.

Ma una cosa è certa: Ayomé non è un luogo che lasci davvero.
Questa missione è finita. Ma non è un addio: è un arrivederci…
So che tornerò.
Perché una volta che hai visto quanto si può fare con poco, non puoi più voltarti dall’altra parte.
Grazie a chi ha reso possibile tutto questo.
Grazie ai pazienti, ai colleghi, ai volontari, agli amici che ho trovato lungo la strada.

A presto, Ayomé

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