TM   Marzo 2025

Labirintiche distanze

In tempi sorprendentemente rapidi si sono verificate importanti evoluzioni nel mondo del lavoro, e nelle modalità dello stesso, che hanno visto protagonisti sia i dipendenti che le aziende. La principale conquista europea del post pandemia è la flessibilità, ma intanto negli Stati Uniti, pionieri di queste politiche, è iniziato un curioso ritorno al passato… cosa accadrà nei prossimi anni in Europa? La Svizzera come si posiziona in questa nuova arena?

Intervengono Serena Cambria, Direttrice di Flexsis, società specializzata del Gruppo Interiman; Daniella Lützelschwab, responsabile Mercato del lavoro dell’Unione Svizzera degli Imprenditori; Elena Guglielmin, Cio di Ubs Wealth Management; Anna Bretschneider, Responsabile Svizzera di Baillie Gifford; David Hrdina, General Manager e Capo dell’Executive Committee di Robeco Svizzera; Mike Barnes, Associate Director European Research di Commercial Research Savills; Kevin Boti, Manager People & Organisation Consulting di PwC Svizzera; Frédéric Dinot, Operational Director di Randstad Svizzera; e Fiorella Crespi, responsabile Osservatorio Smartworking del Politecnico di Milano.

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Modalità di lavoro

Troppo tempo ed energie dedicate a qualcosa che nel caso di molti è un semplice mezzo per poter fare qualcos’altro, e che invece nel caso di altri è esso stesso il fine ultimo, o comunque uno dei principali obiettivi, cui viene dedicata la propria vita: il lavoro. Un argomento certo divisivo, e parimenti oggetto di un sano, entro certi limiti, ideologismo. Se certo il consenso si possa dimostrare particolarmente ampio nell’affermare che si lavori per vivere, al tempo stesso altri sosterrebbero un altrettanto incisivo: si vive per lavorare. E non solo tra gli entusiasti.

Il confronto arriva da molto lontano, e nel corso degli ultimi decenni è andato progressivamente inasprendosi anche nella felice aiuola occidentale, a fronte di una crescita economica che ha rallentato nello staccare ulteriori tanto attesi ‘dividendi’, reali e non solo nominali. Come se non bastasse in più d’un caso l’emergenza pandemica ha offerto un artificioso scorcio su quella che parrebbe possa essere una via alternativa in cui sì viene dedicato del tempo all’attività professionale, ma questo si inserisce all’interno di un articolato sistema di ‘contrappesi’. Nella convinzione che queste possano e debbano convivere per garantire un maggior benessere al collaboratore. Ma se si guardasse al passato cosa emergerebbe?

La ancora incompresa magia resa (necessaria e) possibile da oltre 25 mesi di pandemia, ossia aiuti finanziari a pioggia per famiglie e imprese come mai se n’erano anche solo ipotizzati nella storia, offre un interessante parallelismo prima con la Roma repubblicana e poi imperiale.

Della amplissima maggioranza dei cittadini romani di cui si è letto, o si è soliti fare, probabilmente nessuno ha nel concreto lavorato un’ora nella sua lunga vita. O meglio, dipende dalla definizione che si vuole dare a ‘lavoro’. Per quanto non tutti benestanti in egual misura, e con alcuni casi imbarazzanti, tanto che sia Cesare che Cicerone ebbero non pochi problemi finanziari nel garantirsi in più d’un’occasione un seggio in senato, i protagonisti della storiografia romana furono solitamente appartenenti alle classi più benestanti, e che in quanto tali trascorrevano le giornate in occupazioni non comuni: guerra, politica, arti e ozio. Nel caso di quest’ultimo con declinazioni però tutte romane. Ecco quindi che molto spesso i potenti generali di Roma erano anche affermati poeti e letterati, artisti a tutto tondo, compositori e parolieri, oltre che funzionari pubblici e rispettati sacerdoti, al servizio di un ideale: Roma stessa.

Se però anche si guardasse alla maggioranza della popolazione romana, di origine o diritto, una profonda distanza affiorerebbe rispetto alla quotidianità delle società avanzate moderne. All’epoca le persone anche più indigenti non avevano un eccessivo bisogno di lavorare, lo Stato garantiva infatti da bere e mangiare a chiunque non potesse permetterselo, così come offriva gratuitamente sanità (acqua e terme), intrattenimento (giochi e corse), e in caso di necessità lavoro (servizio militare). In questo Roma non era un’eccezione, ad Atene, Cartagine, Alessandria le circostanze erano analoghe, si trattava del resto di importanti metropoli, al centro di vasti imperi, che garantivano seppur non troppo volontariamente tutte le risorse necessarie a renderlo possibile.

Per quanto rifletta la profonda insoddisfazione di molte più persone del previsto, la Great Resignation è anche un’evidente dimostrazione di un’economia vitale, e di un mercato del lavoro ricco di opportunità, che dunque funziona, e favorisce il cambiamento

Serena Cambria

Serena Cambria

Direttrice di Flexsis, società del Gruppo Interiman

Per quanto non fosse un’eccezione a tutti gli effetti, i cittadini romani non erano certo soliti pagare le imposte su quello che oggi si definirebbe reddito, a prescindere dal fatto che lo avessero o meno, come anche non era spesso il caso. Erano invece soggetti a un’imposizione molto pesante i territori sottomessi e gli alleati, in un crescendo proporzionalmente alla distanza geografica. Lo Stato metteva però nelle migliori condizioni di agire chiunque volesse farlo, e dunque il ceto medio, che sfruttando abilità, rendite di posizione, amicizie o peggio, in pochi anni si potevano accumulare fortune notevoli. Ed è un po’ questa l’importante differenza che sopravvive rispetto agli stati coloniali europei dei secoli successivi. A Roma l’ascensore sociale funzionava, e sotto molti aspetti il merito era ancora premiato in primis proprio dal mercato, con l’esercito a fare da ulteriore e frequente trampolino di lancio a illustri personaggi, ancora oggi celebri.

A modo loro i romani il nuovo totem della modernità, il ‘work-life balance’, erano riusciti a garantirselo in largo anticipo, da un lato limitando le quotidiane necessità di spesa della maggior parte delle persone, dall’altro assicurandosi stabili fonti di entrate che ne coprissero i costi, resistendo alla tentazione di tartassare fiscalmente il ceto medio e quello alto, o le imprese, come invece fanno abitualmente gli Stati moderni, in assenza di valide alternative, e con risultati evidentemente discutibili, laddove non fallimentari.