Volti mascherati, creature grottesche o fantasmagoriche, scheletri, diavoli: un corteo granguignolesco popola le tele per cui è più celebre James Ensor (1860-1949). La fascinazione per il carnevale, tradizione secolare nella sua Ostenda, con la sua primigenia carica trasgressiva e il sovvertimento parodico dei codici sociali, ne aveva stimolato lo spirito caustico e la visionarietà. Tanto erede dei suoi antenati fiamminghi Bosch e Bruegel, quanto precursore della rivoluzione espressionista e surrealista (e di molto altro ancora). Un outsider che, sebbene quasi mai nella sua lunga vita, quasi novant’anni, lasciò la città natale, conducendo un’esistenza del tutto solitaria, era puntualmente aggiornato su quanto accadeva nell’ambiente delle avanguardie, dell’arte, della musica e della letteratura a Parigi e Bruxelles, al contempo guardando ai modelli degli antichi maestri che, quanto i più moderni emergenti, ambiva a superare. Divenendo di fatto uno degli interpreti di spicco dell’arte di fine Ottocento e della prima metà del Novecento, malgrado il suo nome sia oggi meno popolare di quanto non un Magritte.
A 75 anni dalla scomparsa, il Belgio rende omaggio a James Ensor con un programma speciale di importanti mostre e iniziative fra le Fiandre e Bruxelles durante tutto il 2024. Obiettivo: contribuire a far conoscere in tutte le sue sfaccettature un grande artista di casa – che però portava un nome inglese, come il padre, medico che aveva sposato una fiamminga.
All’interno della variegata opera di Ensor, la messa in scena costituisce uno dei modi espressivi prediletti», conferma Xavier Tricot, che del pittore di Ostenda è fra i massimi conoscitori, già autore del suo catalogo ragionato e curatore anche di diverse fra le mostre in calendario quest’anno, tra cui le due in programma alla Ensorhuis, di cui è conservatore (ingloba la casa in cui l’artista visse dal 1917 fino alla morte nel 1949): Autoritratti (21.03-16.06) e Satira, parodia e pastiche (19.09.24-12.01.25).
«La propensione di Ensor per lo ‘spettacolare’ ha avuto un profondo effetto sul suo sviluppo artistico. Fin da piccolo era sensibile alle rappresentazioni più strane, sia spaventose che meravigliose. La sua vita quotidiana conteneva già i semi che la sua immaginazione, da adulto, avrebbe sviluppato», sottolinea il critico d’arte. Nel negozio di souvenir per villeggianti e articoli per il carnevale gestito dalla madre – una sorta di gabinetto delle curiosità – oltre ad animali impagliati o armi coloniali il piccolo James poteva ammirare maschere di cartone e maschere teatrali giapponesi o cinesi. E lui stesso ricordava l’influenza dei gusti eccentrici di sua nonna, che gli aveva trasmesso la passione per i travestimenti. «A partire dal 1887, l’universo del carnevale occupò una dimensione sempre più centrale nell’immaginario di Ensor e nelle sue ricerche pittoriche. Il motivo della maschera, insieme allo scheletro, divennero una componente ricorrente della sua opera, tanto che è oggi noto al grande pubblico come “il pittore delle maschere”. Anche se questo cliché rischia di offuscare i numerosi altri temi che sviluppò, è pur vero che lo sfruttò fino a farne un paradigma», sottolinea il critico.
Se Ensor è autore di circa 900 dipinti, quattromila disegni e oltre 130 incisioni su un’ampia gamma di soggetti, tra cui anche nature morte e paesaggi, è per le sue immaginifiche raffigurazioni di una macabra e sgangherata umanità che lo si ricorda. Opere come il monumentale Ingresso di Cristo a Bruxelles del 1889 (oggi di proprietà del J. Paul Getty Museum di Los Angeles), che immagina la Seconda Venuta nella capitale belga durante una parata del Martedì Grasso, oppure l’inquietante folla di figure mascherate di Intrigo (del Museo Reale di Belle Arti di Anversa) portano all’apice la vena sovversiva di Ensor – fra farsa e dramma, fra terrificante ed esilarante – denunciando le storture della società. Le aspirazioni della giovane monarchia belga, la Chiesa arroccata in difesa del suo potere e le ripercussioni della rapida industrializzazione polarizzavano le tensioni politiche, socio-economiche ed etniche soggiacenti.
«L’universo teatrale, che per sua stessa essenza si definisce in relazione al fittizio, viene messo en abyme nei dipinti di Ensor. Consapevole che il palcoscenico teatrale funziona come metafora del mondo, a sua volta fa in modo che la sua pittura diventi come metafora del teatro. Il mondo dei simulacri e i simulacri del mondo si uniscono in ciò che è artificio.
Il titolo Masques nous sommes, che attribuisce a un disegno ripreso nel 1888, la dice lunga. Attraverso le sue particolari messe in scena, Ensor offre la sua interpretazione del mondo, per quanto idiosincratica. Poiché la realtà è solo apparente, tanto vale riprodurne il riflesso, il simulacro, la sua immagine artificiale», sottolinea Xavier Tricot. E l’assoluta sintesi ne è proprio la maschera.
«A ben guardare, la maschera può essere interpretata come l’altra forma del volto, la sua alterazione grottesca, mentre il teschio umano cos’è, se non una declinazione della maschera indossata sotto il volto? Le maschere provocano sia orrore che riso, e proprio questa ambiguità mette a disagio. Una falsa finzione, perché la loro funzione è quella di ingannare. Dietro la maschera come oggetto, di legno o di cartapesta, si nasconde solo il vuoto. L’apparenza e la somiglianza si fondono», conclude Xavier Tricot.
Ecco che le opere di Ensor divengono specchio di un’umanità trionfante nella sua deriva. Attraverso l’iperbole e il sarcasmo il pittore vuole ritrarre il vero volto del potere e le sue grettezze, ma al contempo dà forma e colore alla più sfrenata fantasia figurativa, dimostrando perfetta padronanza dei mezzi espressivi.
Oltre al negozio di souvenir familiare, sopra cui si trovava il suo atelier, a ispirarlo erano anche gli ampi paesaggi e le loro atmosfere che non si stancava di ammirare nelle sue passeggiate in riva al mare – e non a caso fra gli artisti ammirati e studiati vi fu anche William Turner.
Il respiro annuale e nazionale della programmazione delle celebrazioni del 75esimo anniversario permette finalmente di presentare James Ensor nell’eterogeneità degli interessi che ne hanno alimentato la creatività. È infatti stato anche un brillante uomo di lettere che si cimentava in improvvisazioni infarcite di miscele di neologismi, un appassionato di musica e compositore; più in generale, un instancabile sperimentatore, attitudine che, in pittura, fino in tarda età lo ha portato a cimentarsi con nuovi soggetti, generi, stili e tecniche, peraltro con estrema perizia, scegliendo il materiale nelle botteghe più costose. Tutt’altro che un eremita arroccato nella sua soffitta, come è stato a lungo ritenuto, anzi era coinvolto nella vita culturale e sociale della sua città partecipando a diversi circoli, fra cui anche il giovanissimo Rotary (pur non mancando di una certa eccentricità).
Una poliedricità che ben colgono le diverse mostre e attività proposte dal cartellone culturale dedicatogli. Il programma ha già preso avvio dal luogo con cui per eccellenza Ensor si identifica, Ostenda, dove un vero e proprio festival cittadino permette di immergersi nell’universo dell’artista (highlight: la mostra Rose, Rose, Rose, à mes yeux! del Mu.Zee dedicata alle sue nature morte, fino al 14 aprile).
In parallelo, fra febbraio a giugno a Bruxelles due mostre ricordano come anche la capitale sia stata fonte di ispirazione per Ensor che qui frequentò l’Accademia Reale, conservando anche successivamente un legame speciale con la capitale, dove avrebbe esposto e soggiornato (James Ensor: inspired by Brussels, Kbr, 22.02-02.06, e James Ensor, maestro, Bozar, 29.02-23.06). Da fine settembre (28.09.24-19.01.25), il testimone passerà ad Anversa, il cui Museo Reale di Belle Arti (Kmska) conserva la più vasta collezione al mondo del pittore (con 39 dipinti, 650 disegni, di cui non meno di 10 delle sue opere migliori) oltre a ospitare il centro di competenza Ensor Research Project. Due gli aspetti cruciali affrontati da questa mostra: il desiderio di Ensor di rappresentare i sogni più sfrenati e la dichiarata volontà di andare ‘oltre l’impressionismo’. Un’ambizione che aveva inizialmente condiviso con il gruppo d’avanguardia di artisti belgi Les XX (I Venti), che lo vedeva fra i fondatori, abbandonando la convenzionalità e il realismo dei primi lavori – marine, paesaggi urbani, nature morte e interni.
Ben presto però la sua audacia entrò in collisione con i suoi stessi colleghi, in parte proprio ostili a quell’immaginario eversivo e disturbante di maschere e scheletri che ne popolava le tele. Se queste settimane in cui domina la tradizione del carnevale si prestano particolarmente a rievocare la genialità di Ensor, senza incorrere nell’errore di etichettarlo semplicisticamente come “pittore delle maschere”, l’invito è ad approfondirne l’opera, approfittando dello spunto per qualche giorno di vacanza in Belgio.
Che per le arti visive tutt’oggi rappresenta, in particolare con Bruxelles, con una delle fiere che per l’antiquariato d’arte è assoluto punto di riferimento, la Brafa, di cui a fine gennaio si è tenuta la 69esima edizione, nonché Art Brussels, a fine aprile, alla 40esima. Anche Ostenda merita una sosta, pur non essendo più la regale località balneare di un tempo. Ma soprattutto è Anversa, gioiello delle Fiandre orientali, a conquistare sin dalla sua ‘cattedrale ferroviaria’ come viene soprannominata la splendida stazione centrale.
Con il suo equilibrio fra storia e contemporaneità, una destinazione da non mancare e dove di casa è un altro grande protagonista dell’arte fiamminga, Rubens: suoi capolavori si possono ammirare nella Cattedrale, nella chiesa di San Carlo Borromeo e al Museo Reale delle Belle Arti con una sala dedicata che ne espone sedici dipinti.
Uno dei modelli ai quali Ensor guardò: lo testimonia uno dei suoi più celebri autoritratti, quello con cappello fiorito (1883-88), in cui si rappresenta (si maschera?) proprio alla maniera di Rubens. Da confrontare, per assaporare tutta la trasgressività di Ensor, a un altro suo emblematico autoritratto – entrambi saranno esposti nella mostra Autoritratti della Casa di Ensor – Lo scheletro pittore (1896-97), in cui si raffigura a mo’ di scheletro vivente, circondato dalle sue opere in atelier: una sorta di memento mori in cui Ensor gioca con gli stilemi della sua pittura, applicando alla sua arte lo stesso divertito e impietoso sarcasmo con cui additava gli inganni altrui.
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