Tabacchiere, bomboniere, astucci, portacipria, flaconi di profumo, kit per la scrittura o il ricamo, fibbie e pomi da bastone, lorgnette… Objets de poche preziosi e sofisticati, realizzati in oro, arricchiti con pietre dure o preziose, ricoperti di madreperla, porcellana o smalti traslucidi e talvolta decorati con miniature. Privilegio lussuoso di membri delle famiglie reali e delle corti di tutta Europa, riflettevano usi e costumi di un tempo in cui proprio attraverso l’eleganza di questi dettagli si rivaleggiava in art de vivre.
È il Musée Cognacq-Jay – ospitato, nel cuore del quartiere parigino del Marais, dallo splendido palazzo cinquecentesco dell’Hôtel Donon, – a farne il centro di una mostra che di questi ‘in-essenziali accessori’ vuole rivelare sottointesi e polisemia, mobilitando la storia dell’arte, della moda, della tecnica, della cultura e antropologia. Affiancati da accessori e abiti che li accompagnavano, dai mobili in cui erano conservati o esposti, da dipinti, disegni e incisioni in cui sono raffigurati, possono infatti essere ricondotti al più ampio contesto sociale e culturale in cui erano utilizzati.
Punto di partenza è l’eccezionale collezione che Ernest Cognacq e la consorte Marie-Louise Jaÿ, i fondatori dei grandi magazzini La Samaritaine, lasciarono in eredità alla città di Parigi, che fra i suoi oltre 1200 pezzi di arte del Settecento comprende circa 260 objets de poche, facendone una tra le più rappresentative raccolte di questa rara produzione, con capolavori di alcuni dei più grandi nomi dell’oreficeria di lusso del Secolo dei Lumi: Joseph-Étienne Blerzy, Paul-Nicolas Ménière, Johann-Christian Neuber, solo per citare alcuni maestri di raffinatezza, ingegno ed eleganza. Per l’occasione, arricchita da importanti prestiti, provenienti da prestigiose istituzioni come il Louvre, il Musée des Arts Décoratifs di Parigi, il Castello di Versailles, il Palais Galliera, le Collezioni Reali inglesi e il Victoria and Albert Museum di Londra.
Il fascino di questi oggetti risiede tanto nel virtuosismo artistico e artigianale necessario per realizzarli, quanto nella loro duplice natura, intima ed eminentemente sociale. Accompagnando i loro proprietari pressoché in ogni momento della giornata, venivano infatti utilizzati dentro ma anche fuori dalla sfera domestica, sfoggiati per ribadire il proprio status nel ‘gran teatro del mondo’. Sono così diventati parte integrante del codice di eleganza.
Per le donne, si iniziava dal rituale della toilette, fra boccette di fragranze, portacipria, cofanetti per grains de beauté, ovvero che contenevano i nèi finti di velluto, all’epoca considerati ornamento di bellezza e usati per esprimere sottili messaggi a seconda della loro disposizione. In compagnia, in un salone, era invece consuetudine estrarre da tasca una graziosa tabacchiera o un kit da cucito. Gli eventi mondani serali, come teatro o balli, offrivano poi l’occasione per scambiarsi messaggi con preziose custodie, mentre ingegnosi cannocchiali permettevano sia di sbirciar lontano che di farsi ammirare. La fabbricazione sfidava l’abilità e l’inventiva dei migliori orafi, richiedendo il concorso di un’enorme varietà di mestieri d’arte, dagli smaltatori ai pittori ai lapidari, arrivando a realizzare anche fantasiose quanto ingegnose trovate come, fra quelle in mostra, la pistola in miniatura che si trasforma in atomizzatore di profumi (Jean-François Bautte, 1800 ca) o il dromedario d’agata che funge da bomboniera (Manufacture de Saint-Cloud, 1750 ca).
Parte integrante del percorso dell’esposizione, lo studio dei centri di produzione, dell’organizzazione dei mestieri e del ruolo degli professionisti coinvolti permette di far luce sul circuito di distribuzione, dalla fabbricazione alla vendita.
Dopo aver dato vita a una vera e propria moda che li rese estremamente popolari nel Secolo dei Lumi, sul tornante del XX secolo gli objets de poche sono diventati sempre più ambiti anche dai collezionisti, grazie alla loro preziosità e alla capacità di testimoniare un’epoca e la sua art de vivre, raccontando anche di amori, amicizie o un atto nobile di cui erano stati dono. Ma già Federico II di Prussia aveva raccolto quasi trecento tabacchiere, adornate con una profusione di pietre preziose.
La sala conclusiva della mostra offre un contrappunto moderno, presentando oggetti della collezione Van Cleef & Arpels e Fabergé risalenti al XX secolo ma ispirati al gusto del Settecento.
Un’occasione da mettersi ‘in tasca’ – l’esposizione è in programma dal 28 marzo al 29 settembre – per scoprire questo piccolo ma prezioso musée de charme, una delizia per gli amanti dell’arte del XVIII secolo: opere di Boucher, Houdon e Oeben, miniature di Nicolas Dubois, Marie-Anne Fragonard, Nicolas Hallé, Samuel John Stump, maestri del vedutismo veneto e anche una delle prime opere giovanili firmate e datate di Rembrandt, oltre ad arredi, tappezzerie, vasi, argenterie e, appunto, boîtes e piccoli oggetti di lusso. Il progetto dei due coniugi di riservare a queste opere una sede dedicata venne portato a termine nel 1929, un anno dopo la scomparsa di Ernest, e inaugurato dal Presidente della Repubblica Gaston Doumergue. Trasferito dal 1990 nei suggestivi e ristrutturati spazi dell’Hôtel Donon, si sviluppa su tre piani, affiancando all’esposizione permanente, che ricrea le ambientazioni settecentesche, le mostre temporanee. Tuttora la collezione continua a essere regolarmente arricchita con acquisizioni fedeli ai valori e alle predilezioni che la hanno ispirata.
La storia è degna del più avvincente romanzo d’appendice. Di umili origini, dopo i primi tentativi falliti di farsi largo nel mondo dei grandi magazzini, in pieno fermento nella Parigi del Secondo Impero, Ernest Cognacq (1839-1928) ripartì da zero come venditore ambulante, installandosi sotto la seconda arcata del Pont-Neuf, sul sito dell’antica pompa idraulica de La Samaritaine. Sarà questo il nome che sceglierà per battezzare la sua prima boutique, intuendo la possibilità di approfittare della clientela che si recava nelle vicine sedi di Les Halles e À la Belle Jardinière, attirandola con i suoi rivoluzionari principi di vendita: ingresso libero senza obbligo di acquisto, prezzi fissi ed esposti, possibilità di scambio, acquisto a credito, …
Nel 1872 sposa Marie-Louise Jaÿ, prima commessa del reparto abbigliamento di Le Bon Marché. Insieme fanno fiorire gli affari: 400mila franchi nel 1872, 6 milioni nel 1882, 40 milioni nel 1895 e oltre un miliardo nel 1925. Una sorte che ringraziano anche con un’intensa attività filantropica, in particolare creando una fondazione caritatevole che porta il loro nome ed è tuttora attiva.
Acquistando progressivamente i terreni contigui, costruiscono un impero anche immobiliare tra il Quai du Louvre, Rue du Pont Neuf e Rue de Rivoli. Negli anni Trenta i negozi de La Samaritaine occupano ormai 48mila metri quadrati, senza contarne un quinto specializzato in beni di lusso che fungeva anche da vetrina per la collezione d’arte della coppia, oggi esposta al Musée Cognacq-Jay.
La Samaritaine diventa anche prototipo delle “cattedrali del commercio moderno”: in particolare, il nuovo edificio disegnato per Ernst Cognacq dal belga Frantz Jourdain è un capolavoro del Liberty con la sua struttura in vetro e acciaio e le sinuose decorazioni. Jourdain concretizzava così, nel 1910, il grande progetto che aveva condiviso qualche anno prima con Zola, aiutandolo a immaginare l’ambientazione dell’undicesimo tomo del ciclo dei Rougon-Macquart, Au Bonheur des Dames, in cui viene evocato proprio il mondo in pieno sviluppo dei grandi magazzini parigini (e non a caso, per l’energico e geniale proprietario Octave Mouret, non mancò di ispirarsi a Ernst). Oggi di proprietà del gruppo Lvmh, dopo 16 anni di chiusura e cinque di ristrutturazione (che hanno richiesto un investimento da 750 milioni di euro e mobilizzando tremila persone), ha riaperto le porte nel giugno 2021 con l’ambizione di diventare la nuova destinazione dell’eleganza parigina, forte di 600 brand del lusso. Al momento però a mancare per farla decollare – fra pandemia, e-commerce e proteste sindacali – sembra proprio la genialità di un Ernest Cognacq.
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