Dante lo sintetizzò nel guizzo di una terzina: “Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura” (Purgatorio, XI, vv. 94-96). Destino protrattosi fino ai giorni odierni: la fama del maestro è stata eclissata dall’astro del suo allievo, rivoluzionario per la plasticità delle figure, l’umanità dei suoi personaggi, l’uso del chiaroscuro e la resa della terza dimensione. Eppure, proprio lo stesso Vasari che a Giotto riconosce di aver segnato il punto di rottura dell’arte italiana rispetto alla ieraticità dello stile bizantino, è Cimabue che pone a principio della narrazione delle sue Vite, attribuendogli il merito di aver dato “i primi lumi all’Arte della Pittura”.
Sul ruolo determinate di Cenni di Pepo, nome all’anagrafe di Cimabue, nella svolta che, aprendo la strada al naturalismo e alla narrativa nella pittura occidentale, ha portato alle conquiste dell’arte rinascimentale, si china la mostra appena inaugurata al Louvre, in programma fino al 12 maggio. Lo fa a partire dalle scoperte consentite dal restauro di due opere molto speciali fra le oltre 480mila delle sue collezioni: l’una monumentale e fra le più celebri del maestro fiorentino, la Maestà (1280 circa), la seconda invece – La derisione di Cristo (1290-95) – frutto di un fortuito ritrovamento del 2019 che ha permesso di arricchire la scarsa quindicina di opere che gli è attribuita (una decina di dipinti, un ciclo di affreschi ad Assisi e mosaici a Firenze e Pisa) – e poco d’altronde si sa della vita dell’artista, nato attorno al 1240 e morto nel 1301/1302.
Freschissimi di restauro, completato a fine 2024, questi due capolavori costituiscono il fulcro della mostra Revoir Cimabue, che riunisce una quarantina di opere per evidenziare la straordinaria novità dello stile di Cimabue che nel secondo Duecento si confrontava ancora a un contesto in cui il valore dell’arte era determinato dalla conformità al canone delle icone orientali, che si riteneva derivassero fedelmente da immagini “ἀχειϱοποίητος”, cioè “non fatte da mano umana”, alle quali si attribuiva un’origine – e un’influenza – miracolosa. Rappresentate su fondali dorati, le figure esprimevano la loro sacralità obbedendo a una rigida stilizzazione.
Rivelando ciò che il nudo occhio non vede, le indagini scientifiche sulla Maestà hanno chiaramente mostrato la volontà di Cimabue di distaccarsi da queste convenzioni. Come spiega Thomas Bohl, curatore del Dipartimento Dipinti italiani dal XIII al XV secolo del Louvre e della mostra, il restauro dell’opera, che Cimabue dipinse per la chiesa di San Francesco a Pisa, giunta al Louvre nel 1813 con le spoliazioni napoleoniche, ha rivelato la grande ricchezza e varietà dei pigmenti utilizzati, coperti dai numerosi strati di vernice ossidata e ridipinture apposti dopo il precedente ultimo intervento ottocentesco, che ad esempio avevano virato al verdastro la prodigiosa luminosità dei blu, tutti dipinti in lapislazzuli, come nell’ora scintillante mantello della Vergine. Ne sono emersi anche elementi prima nascosti, come il tessuto orientale del trono decorato con aquile e iscrizioni che imitano la scrittura araba, motivi che decorano anche la bordura rossa sulla cornice, ispirati ai preziosi manufatti che circolavano in Italia all’epoca, proprio come numerosi erano gli scambi non solo commerciali, ma anche scientifici e intellettuali fra le due civiltà. Finanziato da Linda e Harry Fath, membri dell’American Friends of the Louvre, il restauro che ha richiesto quasi tre anni – dalla campagna scientifica di imaging condotta con il Centre de recherche et de restauration des musées de France all’intervento vero e proprio – porta il Louvre ad affermare che la Maestà possa essere considerata il primo capolavoro della pittura moderna. Nonostante infatti Cimabue adotti ancora alcune modalità rappresentative comuni nelle icone, come il tipo di Vergine che porta il Bambino benedicente, rinnova completamente la rappresentazione delle figure, enfatizzandone l’umanità: sia gli Angeli che la Vergine hanno piccole sopracciglia e mani articolate; il Bambino regge un rotolo delle Scritture che si deforma sotto la pressione della sua mano, e la trasparenza dei tessuti è resa magistralmente, come la tunica bianca che copre la gamba di Gesù pur lasciandola intravvedere.
Quanto osservato in quest’opera monumentale, alta 4 metri, si ritrova confermato anche su piccola scala dalla tavola della Derisione di Cristo (25 x 20 cm), in origine parte di un dittico destinato alla devozione privata, composto da otto scene della Passione di Cristo, risalente al 1280 e probabilmente smembrato a inizio Ottocento per renderne più lucrosa la vendita. Ne sono noti solo altri due pannelli: La Flagellazione di Cristo, conservato alla Frick Collection di New York dal 1950, e La Vergine con il Bambino, acquistato dalla National Gallery di Londra nel 2000, qui in mostra per la prima volta riuniti. Proprio l’analisi ai raggi x dei frammenti ha dimostrato come appartenessero alla stessa tavola di pioppo, permettendo così di attribuire a Cimabue quella Derisione di Cristo che, fino al 2019, se ne stava appesa nella cucina di un’anziana a Compiègne, che la credeva un’icona russa senza particolare valore.


Notata dalla banditrice della casa d’aste Actéon chiamata a inventariare i beni della casa al momento del ricovero della proprietaria, ha subito richiamato l’attenzione degli esperti del Duecento italiano e, dopo l’identificazione, è stata battuta all’asta per 24 milioni di euro nell’ottobre 2019, diventando l’ottavo dipinto antico più costoso al mondo. Si preparava ormai a volare negli Stati Uniti, alla volta della Collezione Alana, nota per i suoi tesori del Rinascimento italiano, quando l’intervento del governo francese, che l’ha classificata come Tesoro nazionale – etichetta che esclude l’autorizzazione a lasciare il territorio francese per 30 mesi – ha dato al Louvre il tempo di raccogliere i fondi necessari per comprarla.
Con questa mostra per la prima volta viene presentata al pubblico dopo il restauro che permette di apprezzarne tutta la freschezza e vitalità. Lo stato di conservazione era abbastanza buono, se si esclude lo strato di sporcizia che ne aveva spento la luminosità. Cimabue dà prova di una prodigiosa inventiva, ancorando la composizione alla vita quotidiana del suo tempo, cercando di rendere, anche se in maniera ancora primitiva, la prospettiva e, soprattutto, dando alle figure espressioni individuali e osando vestirle alla moda del XIII secolo. I muscoli tesi sono dipinti con precisione, accentuando l’impressione di violenza e movimento che si sprigiona dalla scena, raffigurante il momento in cui Cristo bendato (elemento riemerso dal restauro, in un precedente intervento erano stato dipinti due occhi al di sopra della benda), viene colpito dai suoi aggressori. Modalità di rappresentazione che riecheggiano le preoccupazioni dei francescani, promotori di una spiritualità più interiorizzata e immediata.
Una piccola opera ma di importanza capitale dal punto di vista storico ed estetico, per le sue invenzioni formali e iconografiche, che segna una tappa cruciale nella storia dell’arte e permette di comprendere meglio le fonti della rivoluzione pittorica di cui Giotto e Duccio da Buoninsegna furono poi i principali artefici nel Trecento, accentuando la messa in scena del racconto sacro in ambienti sempre più calati nella quotidianità, raffigurando virtuosisticamente le architetture, i tessuti e i mobili del loro tempo, come se la scena si svolgesse davanti agli occhi degli spettatori.
Il percorso proposto dal Louvre, che presenta una quarantina di opere e manufatti per contestualizzare la portata dell’innovazione di Cimabue e illustrare come la generazione successiva ne abbia raccolto il testimone, si conclude con il grande San Francesco d’Assisi che riceve le stimmate di Giotto, destinato allo stesso luogo della Maestà, il tramezzo di San Francesco a Pisa.
Una piccola mostra-dossier, come quelle di estremo interesse che dall’anno scorso il Louvre propone sotto il titolo “Revoir…” (Van Eyck, Watteau), sempre prendendo spunto dal restauro di un’opera prestigiosa delle sue collezioni. In questo particolare caso sono ben due autentici capolavori, per un’esposizione che ben interpreta due assi portanti della strategia del Dipartimento delle Pitture: la politica proattiva d’acquisizione di dipinti anteriori al Quattrocento e la campagna di restauri, in particolare di opere di grande formato, in cui ormai da una decina di anni si è lanciato il museo parigino. A immagine e somiglianza di un’istituzione che, per rimanere la numero uno al mondo, con quasi 9 milioni di visitatori l’anno, non può riposare sui fasti passati e già guarda, ufficialmente annunciato dal Presidente Macron, al colossale programma di ristrutturazione battezzato, non a caso, “Nouvelle Renaissance”.
Non un semplice restauro: quello annunciato da Emmanuel Macron sulle ali del suo successo con Notre-Dame, è un colossale programma di ristrutturazione ed estensione del Louvre. Se le indiscrezioni sulla lettera confidenziale in cui direttrice del museo, Laurence des Cars, chiedeva un aiuto allo Stato per affrontare gravi problemi strutturali e logistici, ha guastato la grandeur dell’annuncio, non si può immaginare che un piano tanto ambizioso sia stato improvvisato in due giorni per smorzare la polemica. E di fatti sembra che abbia richiesto almeno due anni di confronto. Già ampiamente mediatizzata è stata l’idea di spostare la Gioconda dalla Salle des États (dove il Presidente ha tenuto la conferenza stampa) in una sala più isolata, a cui si potrà accedere con biglietto indipendente, decongestionando così gli attuali intasamenti, considerato che l’opera attira l’80% dei visitatori. Ma il fulcro del progetto Nouvelle Renaissance sarà il nuovo ingresso al museo, orizzonte 2030, per evitare il collo di bottiglia della pur splendida Piramide che, inaugurata nel 1989, era però stata pensata per un flusso di 4 milioni di visitatori all’anno, mentre ormai sono oltre il doppio (8,7 nel 2024). Un’occasione anche per ripensare, insieme al Comune, l’Esplanade di fronte alla Colonnade de Perrault e così riplasmare la connessione fra il Louvre e la Città, riprogettando degli spazi intorno all’Île de la Cité fino alla Concorde.
Entro fine anno si chiuderà il concorso per assegnare i lavori del nuovo ingresso, il cui costo – ufficiosamente stimato a 400 milioni di euro – sarà interamente coperto dalle risorse proprie del Louvre, assicura Macron, dunque incassi della biglietteria (con costo maggiorato per visitatori extra Ue dal 2026), operazioni di mecenatismo, sponsorizzazioni e gli introiti dalla licenza del Louvre Abu Dhabi. Altrettanto budget dovrebbe esser necessario per gli interventi tecnici miranti adeguare standard infrastrutturali di sicurezza e ambientali dell’intero complesso, il tutto senza periodi di chiusura, a differenza invece della strategia adottata da un’altra istituzione dell’arte parigina come il Centre Pompidou, che da questa fine settembre fino al 2030 chiuderà i battenti per una completa metamorfosi, approfittando dei cinque anni di stop per proiettarsi fuori dalle sue mura, in Francia e all’estero, con il programma Constellation.
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