TM   Settembre 2023

Parolieri di sostenibilità

Il principale problema alla base delle molte e troppe ambiguità intorno all’intero comparto della sostenibilità, che siano investimenti o che siano prodotti poco cambia, è la mancanza di una definizione condivisa del cosa sia, e quanto. Una semplice unità di misura. Le ampie libertà che hanno dunque le imprese spalancano le porte al curioso fenomeno del greenwashing, la sottile arte di inverdire qualunque cosa. Ma quali sono i rischi, e come limitarlo?

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Trecento metri, trenta yarde, tre miglia, quattro litri, due galloni, sette tonnellate, otto once, nove libbre… misure, misure, e ancora misure. Seppur certo con una certa ragionevole chiarezza. Le unità di misura di ogni sistema sono note, e univoche, parametrate a un unico coerente sistema internazionale che considera quelle che in tutti i sensi sono peculiarità nazionali, retaggi storici, seppur in progressiva estinzione. Da qui gli Stati Uniti con il loro gallone di benzina, gli inglesi con le loro 30 miglia orarie, o i cinesi con il loro lì o jin, senza inoltrarsi nei meandri dei calendari non gregoriani.

Come destreggiarsi in tale giungla? Semplice, ovviamente tavole di conversione per ogni dubbio o necessità. Ma se non ci fossero per semplice questione di scarso utilizzo, e si dovesse compilarle invece da zero? Evidentemente si finirebbe con l’incappare in qualche problema in più, scavando alle origini di qualunque sistema nazionale, peggio se regionale, e disquisendo di quelle che ora della fine sono e rimangono definizioni. Un litro è… un litro, dieci decilitri, ma quant’è? Più semplice, un metro è un metro, dieci decimetri, cento centimetri e così via, ma poi all’atto pratico?

Un problema serio se si ha a che fare con molti Paesi, tutti diversi e tutti insieme, trascurabile in caso di contatti isolati e sporadici. Una questione cui si trovò presto confrontata Roma, che nel fare ordine qualche soddisfazione se l’è sempre levata. Erano del resto tempi complessi, dati anche dall’estrema geopardizzazione del quadro politico del Mediterraneo allargato, in cui convivevano quindi a distanza di pochi giorni di navigazione unità di misura apparentemente identiche, almeno nel nome, ma all’atto pratico ben poco omogenee, com’è ad esempio il caso del piede, che a dipendenza della località poteva essere dorico, attico, romano, osco italico… solo per rimanere tra Italia e Grecia. A questi si affiancavano in Africa e Oriente il piede siriano, microasiatico, fenicio o rodio, e nel loro caso si trattava prevalentemente di unità di peso.

A fare ordine, a impero ormai costituito, il solito Augusto, con il ‘Pes monetalis’, traducibile in piede monetale, pari a 29,65 cm dunque identico a quello attico, la cui unità campione era conservata a Roma nel tempio di Iuno Moneta, al pari di molte altre, pratica andata poi diffondendosi in molte altre località. Ma quali erano le differenze tra tutti gli altri piedi? Apparentemente non enormi, pochi grammi o pochi centimetri, ma proporzionalmente molto significative. Il piede osco-italico misurava 27,5 cm e peggio erano le unità di peso, legate però a doppio filo con il sistema monetario.

Se i fenici sono stati per centinaia d’anni i mercanti per antonomasia dell’intero Mediterraneo, non si può certo affermare in chiarezza volutamente abbondassero. Quindi un piede a Tiro, nell’attuale Libano, aveva un peso compreso tra gli 8,29 e i 9,91 g, ma il piede fenicio era di 7,76 g, quello siriano di 9,4 e quello attico di appena 4,36 con riflessi particolarmente importanti al crescere dei multipli di quello che rimaneva pur sempre un ‘piede’. Evidentemente accanto al piede, a dipendenza che si trattasse di liquidi (vino), aridi (grano) e lunghezze (strade), le unità di misura erano molte altre che davano vita sistemi di misurazione e comparazione decisamente complessi. Un problema anche molto pratico, se si considera che era proprio lo Stato a farsi garante di queste ‘unità’, in primis per riscuoterne tasse e dazi commerciali.

Il programma che abbiamo lanciato in Svizzera, nell’ambito del trading di materie prime, mette in diretta correlazione l’erogazione di credito a condizioni vantaggiose al raggiungimento di obiettivi concordati nel sostenibile. Anche gli istituti di credito possono giocare un ruolo

Deia Markova

Deia Markova

Responsabile svizzera dei servizi finanziari sostenibili di Société Générale

Sia nel caso delle distanze, ad esempio per viaggi di centinaia di km, sia per i pesi, l’importazione di derrate alimentari dall’Africa a Roma, la chiarezza era un elemento logisticamente ed economicamente fondamentale. Da qui, nel caso delle strade, un preciso sistema di misurazione con cippi posti ai bordi delle arterie consolari ogni mille passi (da qui le pietre miliari), e mappe dettagliate, gli ‘itineraria’, a disposizione dei viaggiatori con tanto di stazioni di servizio e locande dove sostare tra una località e l’altra.

Se dunque sino ad Augusto uno dei principali problemi che ancora affliggeva il Mediterraneo, e il nascituro impero, erano state le unità di misura, almeno quello era stato facilmente risolto: la Libbra era l’unità fondamentale dei pesi, il modio dei prodotti secchi, l’anfora dei liquidi, il piede delle lunghezze, lo iugero delle superfici. Tutta una questione di definizioni, per certi versi di semplice semantica, quella che manca ad esempio in un ambito di stretta attualità e particolare interesse. Cosa è sostenibile, e quanto? Qual è un investimento verde, e soprattutto di quale delle molte tonalità?

La via degli incentivi costituisce in quasi tutti gli ambiti un modo abbastanza affidabile per ottenere i risultati attesi. Che poi tali risultati siano veri sta all’abilità dell’erogatore essere sufficientemente attento da evitare costose leggerezze. Laddove però questi sia un soggetto privato ecco che la speranza divampa. Ma quanto è facile in un ambito tanto ambiguo? «Nell’ambito del programma che abbiamo lanciato in Svizzera una delle principali difficoltà riscontrate è stata proprio la definizione degli obiettivi da concordarsi con i clienti. In particolare, per monitorare sforzi delle imprese e risultati raggiunti nell’arco di un anno sono stati sviluppati internamente, ma da parte di un team composto da nostri esperti, professionisti affermati di due aziende nel programma, e di una società ClimateTech leader nella raccolta dei dati sulle emissioni, Kpi basati su criteri di sostenibilità elaborati da società indipendenti e su un sistema di rating derivato dal database di CarbonChain», evidenzia l’esperta di Société Générale.

Specie quando si allarga l’analisi oltre il perimetro di bilancio dell’azienda interessata, anche ammettendo la più ampia collaborazione da parte di tutti i soggetti coinvolti, tutto si complica esponenzialmente. «Solo a patto di indagare a monte e a valle, dunque coprendo l’intera filiera produttiva, dalla miniera al prodotto finito, si può avere contezza del suo reale costo ambientale, che è al centro degli obiettivi di emissioni e climatici del programma. Quelle che vengono definite emissioni Scope 1 e 2 sono quelle direttamente riconducibili all’impresa, le più facili da monitorare. Calcolare le Scope 3, quelle complessive, è decisamente più difficile e richiede la raccolta di Big Data per ogni fase produttiva, e l’impiego di tecnologie avanzate nell’analisi, come il machine learning», prosegue Markova. 

Analisi complesse e molti dati, dunque imperniate sull’Intelligenza Artificiale, che vanno ad arricchire un quadro ampio e variegato di valutazioni. «Oltre al calcolo dei Kpi dei singoli obiettivi, si affiancano i giudizi forniti dalla piattaforma di CarbonChain su impatto e intensità carbonica dell’attività dell’impresa, rispetto al benchmark di mercato. Una performance migliore rispetto alla concorrenza consente di ottenere giudizi positivi, la cui somma deve crescere nel corso del tempo. Ogni singola operazione viene valutata, e i giudizi positivi dell’intero ‘portafoglio’ devono costantemente sopravanzare quelli negativi», conclude l’esperta.