Rilievi e depressioni, affioramenti e immersioni, pieni e vuoti, gravi e acuti, luce e ombre: una dualità di elementi e concetti che genera un campo di forze contrapposte; tensioni in equilibrio che nell’apparente planarità di una superficie monocroma esaltano con gesto architettonico la vertigine della profondità. Laureatosi nel 1956 all’École nationale supérieure d’architecture et des arts décoratifs de La Cambre di Bruxelles, era in prima battuta pittore che Enrico Castellani (1930-2017) si considerava, nell’unicità ritmica di una sintassi binaria di estro- e introflessioni che della tela si appropria nella sua materiale tridimensionalità: non più rigido supporto sotteso all’opera, ma materia elastica che vibra dell’immanente energia di cui l’artista la carica. Come chiariva bene sulle pagine di Azimut – rivista-manifesto alla quale aveva dato vita nel 1959 insieme all’amico e collega Piero Manzoni, in due soli numeri scrivendo un capitolo fondamentale delle avanguardie italiane di fine anni Cinquanta – non era la pittura da superare ma i suoi limiti tradizionali, per tentare una forma d’arte ridotta alla pura semanticità.
«Le opere di Castellani vivono di opposti che, completandosi, annullano la classica idea di rappresentazione. Il suo alfabeto parla della luce e le sue superfici, come lui stesso scrisse nel 1961, “non facendo più parte del dominio della pittura o della scultura, e potendo assumere dell’architettura il carattere di monumentalità o potendo ridimensionarne lo spazio, sono il riflesso di quello spazio interiore totale, privo di contraddizioni, cui tendiamo. E pertanto esistono, in quanto oggetti di istantanea assimilazione, la durata di un atto di comunicazione; prima che il tempo le confini nella loro materiale precarietà”. Di queste opere Castellani è anche falegname e fabbro, ma benché nei suoi lavori sia sempre presente quest’importante componente di sapienza artigianale, l’opera è in realtà ancora prima il progetto che viene poi messo in atto. Il linguaggio sviluppato da fine anni ’50 non ha esaurito la forza di una ricerca rigorosa che non ha subito cambiamenti di metodo, ma ha consentito variazioni e combinazioni potenzialmente infinite», sottolinea Barbara Paltenghi Malacrida, direttrice del Museo d’arte Mendrisio, che a Enrico Castellani dedica, fino al 7 luglio, la prima antologica in Svizzera.
Un nuovo appuntamento che si inserisce nel filone di mostre del Museo d’arte Mendrisio che privilegiano la riscoperta di autori mai esposti in precedenza sul suolo nazionale, con scelte sempre ambiziose e di grande spessore, grazie alla libertà lasciata alla direzione e all’importante sostegno di sponsor, come Banca del Sempione nel caso dell’attuale esposizione su Enrico Castellani. Oltre a essere la prima retrospettiva dalla sua scomparsa nel 2017, questa mostra si qualifica – parole di Federico Sardella, direttore della Fondazione Castellani, punto di riferimento in dialogo con il quale è stato sviluppato il progetto espositivo – come la più ricca mai realizzata per provenienza e varietà delle opere raggruppate.
Grande innovatore della tradizione italiana, presente in collezioni e fondazioni pubbliche e private di tutto il mondo, addirittura nel 2010 insignito di un riconoscimento prestigioso come il “Praemium Imperiale” di Tokyo, Castellani era però ancora sorprendentemente in attesa di un progetto museale che ne sottolineasse l’eccellenza in ambito internazionale. «Le ragioni di questo silenzio sono molteplici, a partire da un’interpretazione della critica estera che ne confina l’opera entro i limiti culturali nazionali o, al contrario, ne fa l’esponente di un movimento più esteso, come testimoniano le molte collettive che invece lo hanno visto protagonista in tutto il mondo. Non aiuta a uscire dall’angolo una bibliografia critica essenzialmente in lingua italiana. C’è poi un aspetto non secondario, che è l’indole stessa di un artista che per quarant’anni ha vissuto di puro lavoro, ritirandosi dal 1972 nel suo eremo di Celleno, paesino ancora medioevale in provincia di Viterbo, dove viveva in un antico edificio fortificato. Dopo la chiusura nel 1979 della prestigiosa Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti della Corte, a Milano, che lo aveva rappresentato e portato anche sul mercato statunitense – ad esempio lo troviamo nelle collezioni dell’Hirschhorn Museum a Washington – Castellani si appartò dal mercato dell’arte per proseguire un percorso che si caratterizza per l’assenza di qualsiasi deragliamento o cedimento», commenta Barbara Paltenghi Malacrida, che approfondisce l’argomento nel suo contributo in catalogo (Ed. Casagrande) , fra i cinque saggi critici che lo rendono uno stimolo a ulteriori indagini.
La mostra ripercorre l’intera parabola di Castellani, dal primo paesaggio dipinto diciasettenne, che non ha mai lasciato il suo atelier (opera ancora figurativa che rappresenta il ponte provvisorio della Becca sul Po, dove già si denota l’attenzione ai ritmi, come le diagonali che torneranno in opere future), fino alle tarde sperimentazioni dei primi decenni del nostro secolo. Ne emerge con evidenza tanto l’assoluta coerenza del linguaggio, quanto la varietà degli esiti. Sessanta opere fra dipinti, superfici a rilievo, lavori su carta, installazioni, sculture, stampe e un’intera sezione documentaria, che qui è come se fossero a casa loro: l’atmosfera del Complesso dei Serviti di Mendrisio ricorda infatti l’atelier-fucina dell’artista, con pavimenti in cotto e travi a vista in legno.
Nelle diverse sale, il percorso cronologico si coagula attorno a specifici momenti della ricerca di Castellani: «Dopo un primo periodo caratterizzato dalla pittura ancora gestuale, segnica, affascinata soprattutto da Mark Tobey, il giovane artista-architetto aveva capito che la tela poteva essere qualcosa di diverso dal mero supporto: era un materiale che si poteva sfilacciare, piegare come un plissé, gonfiare e plasmare. Lucio Fontana gli aveva indicato la strada 12 anni prima con il Manifesto dello Spazialismo. Iniziò allora a studiare gli effetti luministici di un punto nello spazio e la sua possibilità di riflettere la luce. Capì che per rendere un’ombra senza utilizzare il disegno né il chiaroscuro vi era un solo modo: quel punto andava sollevato, doveva diventare concretamente tridimensionale, perché solo così la luce, avvolgendone il volume, avrebbe consegnato l’ombra. La sua rivoluzione la compie nel 1959: una piccola tela nera con le nocciole inserite sul retro a segnare le prime estroflessioni della storia dell’arte», racconta la direttrice. Inaugurava così il procedimento, divenuto suo caratteristico, di modellare la superficie dal rovescio, fissando chiodi, assi, centine o sagome di legno e metallo dietro la tela.
Proprio come in quegli stessi anni, dall’altra parte dell’oceano, le composizioni di John Cage liberavano la musica dalla necessità di esprimere contenuti e dalle linee pentagramma, la tela di Castellani non è più una gabbia: diviene volume, come nei dittici e nelle opere sagomate dove l’artista lavora sul concetto di simmetria e perimetro, oppure, oltrepassata da moti ascensionali o diagonali, si apre a ulteriori prospettive. O, ancora, a propria volta è tassello di una sequenza. Fino alle più recenti, potentissime sperimentazioni con l’alluminio aereonautico, i bagni galvanici e gli angolari, uno dei segni più importanti di Castellani.
A sottolineare la dualità, il percorso della mostra si conclude in un ambiente monocromatico nero, con gli eccezionali effetti della grafite, in antitesi al grande salone iniziale bianco nel quale sono state riunite opere da tutte le decadi, che in compresenza rivelano l’armonia di fondo, pur ciascuna affermando la propria identità. «Quest’impostazione rispecchia uno dei principali obiettivi che ci siamo posti: confutare l’opinione che Castellani fosse un artista monotono, se non nel senso virtuoso di una mono-tonia come univocità d’intendimento e proprietà di linguaggio. Non possiamo che auspicare che questa mostra, che nasce in un contesto plurilinguistico e multiculturale, possa essere l’occasione giusta per svelarlo anche a un pubblico non italofono. Abbiamo pertanto voluto aprire una finestra anche sull’uomo Castellani, realizzando un documentario, curato dalla nostra Francesca Bernasconi e diretto da Andrea Pellerani, che per la prima volta rende fruibili una serie di materiali audio e video della Fondazione Castellani. Inoltre le audioguide prodotte con Rete Due, insieme a interventi di suoi importanti critici, riprendono brani dagli illuminanti scritti dello stesso Castellani, da poco editi da Arsabscondita, che meriterebbero una traduzione per favorirne l’approfondimento anche a livello internazionale», auspica la direttrice.
Le opere di Castellani sono ‘zone di attrazione’, ‘centri gravitazionali’ – come le ha definite Gillo Dorfles – cui è difficile sottrarsi. Chi le osserva è colto da un senso di vertigine: a dispetto della scelta del monocromatismo, il ‘quadro’ muta in base al punto di vista e alla rifrazione della luce, diventando spazio e percezione. Contribuiscono anche quelle minime trasgressioni che volutamente introducono nello spazio la discontinuità della dimensione temporale: una ripetizione differente, che crea percorsi sempre nuovi. E una sfida per chi la mostra l’ha allestita e, in particolare, illuminata, laddove è facile vanificare il contrappunto di estro- e introflessioni oppure caricare le opere di drammaticità e renderle difficilmente leggibili. Ancor più difficile è fotografarle, cosa che in catalogo è stata fatta con grande accortezza. Nulla di paragonabile però all’esperienza in presenza, dove risulta indubbio come Castellani non sia riconducibile all’optical art. Lontana dal vezzo grafico, la sua opera ‘è’: contiene un’energia immanente che torna a vibrare nello sguardo di ogni spettatore.
© Riproduzione riservata