Anche per lo sviluppo economico e industriale di un paese che, come la Svizzera, non ha mai posseduto colonie, i mercati d’oltremare hanno indubbiamente molto contato. In questi ultimi anni viene finalmente dedicata crescente attenzione alla questione, sull’onda di una presa di coscienza che ha portato l’Occidente a fare i conti con quest’eredità carica di contraddizioni. Da poche settimane si è inaugurata la grande mostra con cui il Museo nazionale svizzero di Zurigo si confronta con il tema.
«Nella scelta delle tematiche per le nostre esposizioni ci chiediamo continuamente, in quanto museo storico-culturale, come essere rilevanti per la società. Lo sguardo al passato può orientare, può aiutarci a capire il presente. Negli ultimi anni, ricercatori e ricercatrici di diverse discipline hanno dedicato importanti pubblicazioni agli intrecci intrattenuti dalla Svizzera con il colonialismo. Anche qui, il movimento Black Lives Matter ha acceso dibattiti. Partendo da questi presupposti, malgrado il nostro museo non possegga una collezione etnografica, abbiamo deciso di presentare, per la prima volta e attraverso una pluralità di sguardi, una panoramica completa della storia coloniale della Svizzera», spiega Denise Tonella, direttrice del Museo nazionale svizzero.
La preparazione dell’esposizione ha richiesto un impegno di oltre due anni, con un dialogo a più livelli che ha coinvolto esperti ed esperte di diverse discipline, raccogliendo gli spunti dal consiglio scientifico della mostra, composto da personalità con profonde conoscenze accademiche e museologiche. «La ricerca più recente ha portato alla luce nuovi aspetti. Ad esempio, l’impatto ecologico delle piantagioni e, più in generale, del sistema coloniale. Nella mostra affrontiamo questo tema in una sezione dedicata allo “sfruttamento della natura”. Oppure il ruolo dei mercenari e degli esperti svizzeri al servizio delle potenze coloniali o ancora l’impatto che ancora oggi ha il colonialismo, ad esempio sul razzismo strutturale. La scelta è stata quella di mostrare l’ampio ventaglio degli intrecci coloniali della Svizzera ed evidenziarne anche le ambivalenze. Il colonialismo è stato un fenomeno complesso e spesso contraddittorio, caratterizzato da molteplici relazioni e interessi. Abbiamo inoltre creato uno spazio nella mostra che permette al pubblico di riflettere sulla tematica e di esprimere la sua opinione che sarà poi analizzata dieci giorni prima della chiusura, il 9 gennaio 2025, in un incontro», anticipa Denise Tonella.
Il percorso si articola in due parti. Sulla scorta di numerosi esempi concreti e grazie a oggetti, opere d’arte, fotografie e documenti, la prima passa in rassegna undici ambiti, in cui privati, aziende o collettività svizzeri svolsero attività associate al colonialismo a partire dal XVI secolo, spaziando dal Nord e dal Sud America all’Africa e all’Asia. «Si pensi che le ricerche attuali presumono il coinvolgimento di oltre 250 aziende svizzere nel commercio triangolare e nella deportazione di circa 172mila persone. In particolare, a partire dalla metà del XIX secolo, l’industrializzazione e l’integrazione dei mercati globali hanno subìto un’accelerazione. Anche le aziende svizzere iniziarono a espandere le loro attività all’estero o a fondarne di nuove. Tra queste, ad esempio, la società di commercio di lana di Basilea Simonius, Vischer & Co, la Basler Handelsgesellschaft (fondata nel 1859 come Missions-Handlungs-Gesellschaft) e i fratelli Volkart di Winterthur (1851). Queste ultime due vengono presentate in mostra. Spieghiamo come si siano specializzate nel commercio di transito, ad esempio in India o nel Ghana, e nel commercio di materie prime quali il cotone, il grano o il cacao, costruendo inoltre una propria rete di filiali, agenzie di acquisto e di vendita nei Paesi in cui vendevano i loro prodotti», spiega Marina Amstad, storica del Museo nazionale svizzero, alla direzione del progetto.

Non furono però unicamente imprenditori, commercianti e banchieri a guardare con interesse ai traffici oltremare, ma anche missionari e ricercatori svizzeri. In particolare per chi era ridotto in povertà, partire per le colonie rappresentava la speranza di una vita migliore. Non solo: periti delle più diverse professioni vi trovavano impiego; funzionari riscossero le tasse; ingegneri costruirono ponti e ferrovie. I missionari svizzeri partivano con la volontà di portare la fede cristiana anche alle popolazioni locali di altri continenti. «Un caso interessante sono le cosiddette “spose missionarie”: per molto tempo alle donne non è stato permesso di lavorare come missionarie. L’unica possibilità era un matrimonio combinato con un missionario. In molte erano disposte, senza conoscerlo, a trasferirsi dal loro futuro sposo in un Paese straniero, perché questo permetteva loro di condurre una vita assai indipendente», racconta Marina Amstad.

L’intenzione del Museo nazionale di Zurigo non è assolutamente quella di fare un processo alla storia giudicando atti commessi in un contesto valoriale e sociale molto distante da quello odierno. L’opinione prevalente all’epoca tollerava la proprietà e il commercio di persone ridotte in schiavitù. Lo dimostra ad esempio il caso di Pauline Buisson, giunta in Svizzera nel 1776 come proprietà di David-Philippe de Treytorrens di Yverdon. Nel corso del XIX cresce però la consapevolezza che la schiavitù violasse i diritti umani. «In Svizzera sono inizialmente singoli circoli intellettuali – il gruppo di umanisti attorno a Germaine de Staël ad esempio, attivo a Coppet tra il 1786 e il 1817 – a sostenere la lotta contro la schiavitù con i loro scritti e il loro impegno politico. A partire dal 1858, vennero fondate associazioni e comitati contro la schiavitù, per lo più provenienti da ambienti religiosi. L’attenzione era rivolta alla lotta contro la tratta degli schiavi in Africa organizzata dai commercianti arabi. Ciononostante, il Consiglio federale difendeva la schiavitù ancora nel 1864 in un rapporto al Consiglio nazionale riguardante possibili disposizioni penali contro i proprietari svizzeri di schiavi in Brasile, affermando che si trattava di “un atto che non comporta un crimine”», ricorda la Direttrice del progetto.
La domanda che interpella a più riprese i visitatori lungo l’itinerario della mostra – “Che ne è oggi?” – trova un fondamentale quadro di riferimento nella videoinstallazione interattiva sulle continuità coloniali in Svizzera, a cui è dedicata l’ultima parte della mostra, riflettendo anche sul ruolo del nostro Paese nell’elaborazione di questo passato sensibile. Un processo che richiede tempo, ma che ha visto compiere grandi passi. Ne fa parte a pieno titolo la discussione sulla restituzione di reperti e opere d’arte trafugate dalle ex colonie dei Paesi occidentali. «A differenza di molti altri musei di storia culturale, il Museo nazionale svizzero non possiede collezioni provenienti da regioni colonizzate. Tuttavia, numerosi oggetti come manifesti, album fotografici o manufatti con rappresentazioni stereotipate e razziste fanno riferimento al passato coloniale della Svizzera ed è importante contestualizzarli. La mostra presenta le storie di questi oggetti, finora poco conosciute», precisa Heidi Amrein, conservatrice capo del Museo nazionale svizzero. «Al contempo, vediamo come molti musei svizzeri che possiedono manufatti provenienti da culture non occidentali, entrati nelle loro collezioni attraverso collezionisti privati e istituzioni, stiano oggi esaminando criticamente questi oggetti, spesso in collaborazione con le parti interessate dei Paesi di origine. Progetti congiunti come l’Iniziativa Benin Svizzera possono portare a restituzioni, a nuove narrazioni nei musei o a ulteriori progetti congiunti», conclude Heidi Amrein.
Proprio l’iniziativa Benin Svizzera (Bis), lanciata con il sostegno dell’Ufficio federale della cultura nel 2021 da otto musei svizzeri a vocazione culturale-etnografica per identificare oggetti trafugati dall’Impero del Benin, sta dando vita in questi mesi a diverse esposizioni, come quella del vicino Museum Rietberg, ideata in collaborazione con partner nigeriani e della diaspora, avvalendosi dell’allestimento dall’architetta svizzera-nigeriana Solange Mbanefo, che si è ispirata a forme, geometrie e simbologie della sua cultura di origine per restituirne la sensibilità.
A chi volesse ulteriormente approfondire gli intrecci coloniali della Svizzera, si consiglia anche l’ultimo numero di Tangram, la pubblicazione annuale della Commissione federale contro il razzismo, che nella sua 47esima edizione (accessibile sul sito dell’Amministrazione federale, sezione Pubblicazioni) traccia un quadro il più possibile esaustivo sul tema, incrociando prospettive complementari che riflettono le ultime ricerche.


Diverse sono le associazioni che propongono visite guidate, mappe digitali e audioguide svelando le tracce del passato coloniale nelle città svizzere. Ong Cooperaxion è attiva a Berna, Thun, Neuchâtel e Friburgo; lo storico, cabarettista e attivista politico Hans Fässler offre diversi itinerari alla scoperta delle tracce (post)coloniali a San Gallo e dintorni; l’associazione Zürich Kolonial, fondata nell’ambiente accademico delle scienze storiche, propone un tour in 12 tappe a zurigo; a Winterthur studiosi di storia raccontano episodi dimenticati; mentre a Ginevra ci pensa il collettivo Afro-Swiss, e nuove iniziative continuano a nascere.
Inoltre, sono in corso diverse mostre. Le principali, a partire da Zurigo:
• Museum Rietberg, In dialogo con il Benin. Arte, colonialismo e restituzione, fino al 16 febbraio 2025
• Museo etnografico dell’Università di Zurigo, I diritti del Benin. Gestione dei tesori reali saccheggiati, fino al 14 maggio 2025
• Collezione del Politecnico federale di Zurigo Tracce coloniali – collezioni nel contesto, fino al 13 luglio 2025
• Musée d’ethnographie de Genève, Ginevra, nel mondo coloniale, fino a 5 gennaio 2025
• Museo di Storia di Berna, Resistenze. Come affrontare il razzismo a Berna, fino al 1 giugno 2025
• Museo dei trasporti di Lucerna, Cacao, arte e colonialismo. La collezione di spedizioni di Philipp Keller, fino al 7 giugno 2026
© Riproduzione riservata
Colonialismo – Intrecci globali della Svizzera
Museo nazionale Zurigo
Fino al 19 gennaio 2025