Sono trascorsi otto anni dall’exploit del primo lungometraggio di Claude Barras, quel piccolo prodigio di La mia vita da zucchina che, accolto da 7 minuti di applausi a Cannes, lo ha fatto entrare negli occhi e nei cuori di tanti bambini ma anche adulti, portandosi a casa due César e una nomination agli Oscar. Tanto è stato necessario al cineasta vallesano per portare sullo schermo la sua nuova storia. La sola fabbricazione delle marionette, che della tecnica stop motion, di cui è fra i più raffinati interpreti, sono anima e corpo, ha richiesto quattro anni, uno per le riprese, altrettanto per la postproduzione, oltre al tempo per scrivere la sceneggiatura originale. La trasfigurazione poetica che del cinema di Barras è la cifra stilistica si applica questa volta alla lotta contro la deforestazione, ripetendo il miracolo di levità e profondità del precedente lavoro, al cui centro erano le ferite e di un’infanzia difficile.
Presentato a maggio a Cannes e a fine giugno in concorso al Festival di animazione di Annecy, prima del debutto nelle sale francofone a ottobre, Sauvages verrà proiettato la sera del 13 agosto al Locarno Film Festival, in Piazza Grande, dove sarà consegnato a Claude Barras il Locarno Kids Award la Mobiliare per la sua capacità di avvicinare gli spettatori più giovani alla settima arte. Seguirà un incontro pubblico la mattina successiva. Nell’attesa, lo abbiamo intervistato.
Claude Barras, la tecnica stop motion si discosta molto dall’animazione computerizzata, a partire dalla presenza di un vero e proprio set cinematografico.
La ragione per cui adoro questa tecnica risiede tanto nel savoir-faire artigianale necessario per la fabbricazione delle marionette, quanto nel lavoro corale che si svolge su un set cinematografico molto simile a quelli tradizionali: al mio fianco ci sono un capo operatore, assistenti alla regia, addetti alla scenografia e gli animatori che muovono le marionette, … un centinaio di persone in totale, che partecipano a un grande sforzo di creazione collettiva, molto distante dall’animazione computerizzata, dove ci si trova a lavorare individualmente dietro uno schermo a frammenti che è possibile assemblare e rielaborare infinite volte.
Nell’epoca dell’istantaneità, il vostro è un elogio della lentezza…
In effetti, giriamo in media 4 secondi al giorno, 12 fotogrammi al secondo, che salgono ai tradizionali 24 per i movimenti rapidi di camera, ma possono scendere a 8 per immagini più emozionali, in cui si ricerca un effetto di sospensione. Per procedere con maggior efficienza e rispettare il budget, per Sauvages abbiamo costruito 17 set: su una decina erano montate sezioni di scenografia per permettere agli animatori di lavorare in parallelo su varie sequenze, mentre gli altri 7 venivano preparati già per le scene successive.
Il risultato è altamente artistico, ma dietro ci vuole una ferrea organizzazione.
Nel nostro caso c’è una tale interdipendenza da richiedere una perfetta pianificazione. Prima di iniziare le riprese vengono già registrate le voci con il cast dei doppiatori al completo che recita le sequenze, un po’ come in una prova teatrale: una soluzione sempre più sfruttata dall’animazione, che permette di ottenere un risultato impareggiabile per spontaneità. Su questa base gli animatori possono coordinare alla perfezione i movimenti, in particolare di bocca a labbra. Si definisce dunque lo story board già con la durata di ogni piano sequenza e delle apparizioni di ogni personaggio, cosicché sia poi possibile gestire tutto il materiale necessario.
Sauvages è una coproduzione di Svizzera, Francia e Belgio, ma siete riusciti a realizzare le riprese a Montreux.
Sì, e non solo perché, essendo diventato papà di una bimba oggi di tre anni, mi sarebbe stato difficile spostarmi come la volta precedente in Francia. L’abbiamo fortemente voluto perché rappresenta una preziosa occasione di trasferimento di competenze altamente specialistiche sul nostro territorio. Giovani registi e animatori hanno potuto cimentarsi come assistenti, lavorando fianco a fianco con i professionisti europei dell’animazione stop motion che abbiamo ospitato. In Svizzera abbiamo solo due grandi studi di animazione, quello di fratelli Guillaume, dove io stesso ho iniziato lavorando al loro lungometraggio d’esordio, e primo film svizzero in stop motion, Max & Co, e Nadasdy Film a Ginevra, fra i coproduttori di Sauvages. Tuttavia i loro rimangono dei progetti d’autore lontani dalla grande industria dell’intrattenimento.
L’anno scorso la stop motion si è anche portata a casa l’Oscar con il Pinocchio di Guillermo del Toro. Sembra non soffrire l’avanzata del digitale.
Al Festival di animazione di Annecy, punto di riferimento del settore, quest’anno su 23 lungometraggi in concorso nelle sezioni L’Officielle e Contrechamp, quattro erano in stop motion, un 15% che ritengo rappresentativo della situazione. È una percentuale che resiste, anzi in lenta crescita. Oggi la nostra artigianalità può anche approfittare dei progressi del digitale, ad esempio strumenti software per le riprese o applicazioni per la stampa 3D che rendono accessibili tecnicamente ed economicamente processi altrimenti molto complessi e specialistici. Per Sauvages abbiamo avuto un budget di 12 milioni di franchi per 87 minuti: una cifra importante per un film indipendente, ma in linea con il costo delle animazioni realizzate a computer in Europa.
In che materiale sono realizzate le marionette?
Inizialmente vengono modellate in plastilina industriale, poi messe in frigo per poter tagliare le diverse parti: gambe, braccia, piedi, mani, orecchie, bocca, … di ognuna si realizza un calco. Nel caso delle gambe, si colloca all’interno un’armatura prima di colare il silicone. La testa invece viene scansionata, stampata in 3D e ricoperta con un rivestimento magnetico per poter intercambiare le parti che creano le diverse espressioni come bocca, labbra e palpebre; i capelli sono in schiuma di latex. Realizziamo una decina di copie di ogni personaggio principale e qualcuno in meno dei secondari.
È lei stesso a disegnarli e renderli così inconfondibili e comunicativi?
Sì, nasco come illustratore di libri per bambini ma ben presto, faticando a trovare un editore per i miei progetti, sono arrivato alla stop motion, come designer dei personaggi dei fratelli Guillaume. Piacendomi molto scolpire, ho così potuto dare volume ai miei disegni. Il volto e i grandi occhi che disegno sono il tramite delle emozioni, perché è lì che istintivamente si concentra lo sguardo dello spettatore per decodificare le emozioni.
Nella favola ecologica di Sauvages però anche la natura ha un ruolo centrale.
Il primo impulso a parlarne, mi è venuto dalla mia stessa famiglia. I miei nonni e persino i miei genitori, fino alla fine degli anni ’60 erano contadini, viticoltori: un mondo stravolto dalla modernità, che l’ha bollato come obsoleto soppiantandolo con sistemi di produzione intensivi. Mi aveva anche molto colpito la storia dell’attivista basilese Bruno Manser, scomparso nel 2000 mentre lottava in difesa dei Penan, una comunità di cacciatori-raccoglitori nella foresta del Borneo. Un terzo aspetto che mi attirava sono le grandi scimmie, che considero uno specchio dell’umanità all’interno della natura. Non avendo mai scritto una sceneggiatura originale, per capire come dar forma alla mia idea, ho frequentato per un anno il Groupe Ouest, un ‘laboratorio’ europeo per autori alle prime armi che mettono in comune le loro esperienze. Una delle cose che ho appreso è proprio come la scenografia non sia mai secondaria. In questo caso l’importanza della foresta rispecchia anche la visione animista dei Penan. Abbiamo lavorato su luci e suoni per modularne la presenza in funzione dell’evoluzione della storia e dei personaggi.
Ma come parlare – da occidentale – delle sfide delle comunità indigene senza peccare di esotismo?
Per approfondire le mie conoscenze mi sono recato nel Borneo, dove ho avuto la fortuna di trascorrere dieci giorni con una famiglia di nomadi nella giungla di Sarawak. Vivendo la loro quotidianità, ho avuto la stranissima impressione di ritrovare la mia famiglia: la stessa lentezza, quel rapporto con la vita e la natura senza artifici, mi hanno riportato alla mia infanzia, quando si andava all’alpe. Da quel momento mi sono sentito legittimato a lavorare al film. Sei anni dopo è finalmente arrivato il momento di condividere il risultato.
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