Tecnologia e diritto non si muovono spesso sugli stessi binari e, anzi, non sono rari i casi in cui i due campi di attività si trovano in antitesi. Se, da un lato, il successo di una nuova tecnologia sta nel riuscire ad anticipare e proporre rapidamente delle soluzioni alle esigenze della società, dall’altro lato, il diritto può solo reagire alle nuove abitudini della società. Visti i tempi necessari per giungere all’entrata in vigore di una legge, non è dunque inusuale la mancanza di risposte nella legge agli effetti collaterali che il progresso tecnologico porta con sé. Si pensi ad esempio alle discussioni degli ultimi anni in merito alla possibilità di introduzione di norme penali per la lotta al cybermobbing o al cyberbooming. Parliamo di distorsioni e abusi dei sistemi di comunicazione, permesse appunto da canali sempre più accessibili, rapidi e anonimi.
La contrapposizione tra progresso tecnologico e diritto non si fa tuttavia notare solo in termini di velocità della reazione legislativa, bensì pure con riguardo allo scopo stesso che i due campi d’attività voglio raggiungere. Se l’intento primo della tecnologia è infatti quello di facilitare la nostra vita, la legge ha spesso lo scopo, attraverso i divieti, di limitarne l’applicazione. Droni, domotica e, più in generale, intelligenza artificiale sono solo degli esempi che attestano come la conoscenza tecnica attuale sia ben più sviluppata rispetto ai reali impieghi di tali tecnologie nel nostro mondo.
Un ambito in cui il legislatore e la giustizia si devono costantemente interrogare se l’impiego di un prodotto tecnologico sia giuridicamente ‘giusto’ o ‘sbagliato’ è quello del lavoro, dove efficienza produttiva e protezione dei lavoratori, su fronti opposti, sono messe a dura prova dall’inarrestabile avanzata della tecnica. Concretamente, la battaglia verte spesso sull’impiego degli strumenti di controllo dei lavoratori, che hanno il fine ultimo di migliorare i processi lavorativi, ma che nel contempo sono potenzialmente lesivi della personalità. Controllo è infatti spesso sinonimo di violazione della privacy.
La protezione della personalità rientra nei compiti principali del datore di lavoro, che è tenuto ad astenersi da ogni attività che ecceda quanto previsto contrattualmente, ma che pure deve adoperarsi affinché sul posto di lavoro la personalità dei dipendenti non sia compromessa da terzi. Vale per il tema di grande attualità della protezione dei dati, ma anche per quello del controllo mediante strumenti di videosorveglianza e di tracciamento delle attività del lavoratore. In ragione delle indiscusse lacune legislative, al riguardo il Tribunale federale ha negli ultimi anni dovuto fornire alcune risposte di particolare importanza per gli addetti ai lavori.
L’Alta Corte ha segnatamente statuito che non è possibile tracciare la posizione di strumenti di lavoro concessi in uso esclusivo ai dipendenti (come lo possono essere l’autoveicolo, il telefono o il computer aziendali) che permettono di registrarne (o anche solo visualizzarne) la posizione. Tale divieto non è nondimeno assoluto, ma può essere attuato unicamente nella misura in cui il datore di lavoro possa garantire che il tracciamento sia limitato esclusivamente all’attività e al tempo di lavoro, ciò che risulta essere piuttosto arduo nel caso dell’apparecchio telefonico consegnato al dipendente, che sicuramente lo avrà con sé quando è a casa o in un altro luogo durante il suo tempo libero. Al riguardo, il Tribunale federale ritiene in ogni modo che l’eventuale introduzione di sistemi di sorveglianza su apparecchi assegnati ai propri lavoratori sia ammessa, purché questi ultimi siano compiutamente informati che sono autorizzati a disattivare ogni dispositivo di tracciamento fuori dagli orari di lavoro.
Ma anche durante il tempo di lavoro non tutto è concesso al datore di lavoro. In particolare, i giudici di Mon Repos hanno giudicato inammissibile la sorveglianza dell’attività di un lavoratore attraverso un cosiddetto spyware (ossia un software programmato per registrare e trasmettere a terzi le informazioni sull’attività online di un utente) e questo nonostante i sospetti di comportamenti del lavoratore in contrasto con gli obblighi contrattuali.
In un altro caso, il Tribunale federale ha per contro giudicato legittimo un licenziamento in tronco di un dipendente che è stato ‘incastrato’ con un sistema di rilevamento di dati che ha riconosciuto e segnalato automaticamente al datore di lavoro la visualizzazione (sistematica) da parte del proprio dipendente sul pc professionale di siti internet a carattere pornografico. Poiché in quel caso espressamente vietato dal regolamento aziendale, il licenziamento e il controllo è stato ritenuto legittimo.
Ecco dunque che l’inevitabile e lenta rincorsa della legge alla sempre più rapida evoluzione della tecnica è in parte attenuata dal lavoro dei giudici che, dal canto loro, devono diventare viepiù esperti di tecnologia o affidarsi a persone che lo siano.
© Riproduzione riservata