TM   Luglio/Agosto 2023

AgriTech: ma chi paga?

L’agroalimentare è il principale indiziato in termini di emissioni, contribuendo per oltre un terzo del totale annuo globale, ma allo stesso tempo è anche il primo in valori assoluti ad essere impattato dai cambiamenti climatici. Nonostante sia urgente abbatterne l’impronta climatica, avendo a disposizione anche qualche soluzione, tra i principali nodi ancora tutti da sciogliere troneggia il finanziamento necessario a farlo, dell’ordine dei trilioni di dollari annui.

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Tradizione e innovazione sono le parole d’ordine della tigre economica dell’ultimo ventennio, tornata a farsi valere dagli inizi dell’anno scorso per più di un motivo, l’industria agroalimentare che nella sola Europa impiega quasi 5 milioni di persone, ha un fatturato di oltre 1,1 trilioni di euro e genera ben 230 miliardi di valore aggiunto annuo. Cifre di tutto rispetto per quella che ora della fine coincide con l’inizio della storia dell’uomo, e con il Neolitico, dunque intorno all’8mila a.C. La fine del nomadismo, e l’inizio di un’ancor rudimentale agricoltura.

Nel corso dei secoli, di pari passo con lo sviluppo della civiltà, il soddisfacimento dei bisogni primari è andato perdendo in importanza o, come evidenzierebbe un economista, ha assorbito quote decrescenti delle risorse disponibili dell’unità familiare, a vantaggio di altri beni e servizi, dinamica inevitabilmente sostenuta dal diffondersi di sistemi economici monetari presso tutti i popoli antichi, con Egitto e Mesopotamia a fare da pionieri. Se avere di che sfamarsi era diventata se non la prassi, quanto meno una buona abitudine, era nei periodi storici più turbolenti che tornava di prepotenza a imporsi.

Ad aver coniato l’espressione moderna, e ancora di strettissima attualità, Panem et circenses fu del resto un poeta della Roma imperiale, di poco successivo ad Augusto, che ben sintetizza quali fossero i principali interessi di una città che aveva da poco raggiunto il milione di abitanti, e la cui governabilità era una sfida quotidiana: pane e giochi. Entrambi gentilmente offerti, all’occorrenza, dallo stesso imperatore. Del resto, con la fine delle guerre civili e il ritorno della stabilità almeno in Italia, Roma aveva ripreso ad attrarre abitanti, sfidando limiti urbanistici e logistici.

A rimarcare la criticità del ruolo, assicurare il sostentamento dell’intera cittadinanza, e dunque evitare disordini, per primo Augusto aveva designato una nuova carica equestre, il Prefetto dell’Annona, a dirigere le operazioni, che già solo nei numeri appaiono impensabili, seppur evidentemente possibili: l’approvvigionamento di oltre 350mila tonnellate di grano l’anno, carestia o meno che fosse. Del resto il pane, o comunque la farina, era l’elemento principale dell’alimentazione di un qualunque romano.

Principali direttrici commerciali nel 117 d.C.
Prodotti agricoli principali regioni produttrici per bene

Storia a parte il come procurarsele, evidentemente tramite importazioni su acqua, principalmente da Sicilia, Cartagine ed Egitto, e ancor prima il come coltivarle. In questo senso, anche a fronte del bisogno, Roma aprì la strada a una specializzazione e meccanizzazione molto spinta del comparto, senza temere il confronto con tutti i popoli precedenti (e successivi). Se acquedotti e canali d’irrigazione potevano portare facilmente l’acqua sino alle coltivazioni, la stessa acqua aveva la forza necessaria ad azionare impressionanti serie di ruote ad acqua e mulini, utili sia a macinare, sia a garantire energia. Ma cosa aveva reso necessarie tali sofisticazioni, sino ad allora mai realizzate?

Quattro secoli di guerre sanguinose, e campagne sempre più lontane dalla penisola, avevano nei fatti più che decimato il ceto medio, sia romano che della provincia (i legionari erano cittadini benestanti che si mantenevano per tutta la durata della leva), il che se da un lato aveva spronato scelte coraggiose da parte del Senato, come l’arruolamento della plebe, dall’altro aveva rivoluzionato l’ordine delle cose anche nelle campagne. La piccola proprietà era andata sparendo, il romano medio era sempre più cittadino e sempre meno contadino, la cronica mancanza di braccia, figli e mariti, rendeva di fatto ingestibili le attività rurali, cedute infine a vantaggio di piccole residenze urbane.

Nelle campagne si erano andate man mano formando enormi tenute, i latifundia, che in passato erano stati l’eccezione, ma a dominare restava il problema della scarsità di manodopera, sempre più costosa. La soluzione tutta romana? Farne il più possibile a meno, ricorrendo all’ingegno. Si era così aperta una stagione di innovazioni anche in ambito agricolo.

Se da un lato convivevano i valori di sempre, il cittadino romano continuava a reputarsi un contadino di origine e fiero di esserlo, per quanto di terra avesse smesso da tempo di occuparsi, dall’altro l’entrare in contatto con popoli sofisticati e ingegnosi più o meno lontani aveva stimolato a innovare, mescolando quanto di meglio l’epoca avesse da offrire, e spingendosi oltre. Si poteva rimanere idealmente contadini, pur avendo delegato ad altri e altro le relative incombenze, per concentrarsi in quello che meglio gli riusciva: conquistare il mondo conosciuto.

È il settore che più di ogni altro alimenta la crisi climatica, con la sola produzione agroalimentare che è responsabile del 30% delle emissioni di gas serra, oltre a perdita di biodiversità, inquinamento delle acque e deforestazione. Il 30% di quanto viene prodotto viene però sprecato

Christina Senn-Jakobsen

Managing Director di Swiss Food & Nutrition Valley