TM   Settembre 2023

Parolieri di sostenibilità

Il principale problema alla base delle molte e troppe ambiguità intorno all’intero comparto della sostenibilità, che siano investimenti o che siano prodotti poco cambia, è la mancanza di una definizione condivisa del cosa sia, e quanto. Una semplice unità di misura. Le ampie libertà che hanno dunque le imprese spalancano le porte al curioso fenomeno del greenwashing, la sottile arte di inverdire qualunque cosa. Ma quali sono i rischi, e come limitarlo?

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Ma quanto utile?

Produrre documentazione, e almeno provare a ‘venderla bene’, di per sé non costituisce reato. Laddove poi la materia sia impalpabile, e la relativa regolamentazione non proprio chiarissima, il confine tra lecito e illecito si fa particolarmente grigio. «Almeno stando a quanto dichiarato da Hans Hoogervorst, presidente dell’International Accounting Standards Board, lo scorso anno è abbastanza improbabile che l’aumento degli obblighi di reporting possa sortire effetti straordinari, ad esempio spingere le aziende a essere più ecologiche o sostenibili. È bene muovere da aspettative molto contenute, e lasciarsi poi stupire che non il contrario, ma del resto è improbabile riesca a indurre le aziende a dare la priorità al benessere della collettività e del pianeta, rispetto al profitto. Il 90% delle aziende che compongono l’indice Fortune 500 producono una qualche forma di rendicontazione della sostenibilità, ma il greenwashing si conferma una piaga dilagante», rileva Andrew Mason, Head of Active Ownership di Abrdn.

L’estensione del fenomeno, ossia il vendere per sostenibile quanto non lo è molto, se idealmente si ritiene possa essere comunque molto estesa, i dati sembrano dimostrare l’opposto, dell’opposto. «Un’analisi condotta dalla Commissione Europea nel 2020 aveva rilevato che, pur stando entro i confini dell’Unione, il 53,3% delle asserzioni ambientali rilasciate dalle aziende fossero vaghe, fuorvianti o infondate, e che invece un altro 40% fosse del tutto infondato. Gli sforzi di molte istituzioni europee, dalle Esa (European Supervisory Authority), all’European Financial Reporting Advisory Group, ha portato la Commissione a presentare lo scorso marzo nuovi criteri comuni per contrastare il fenomeno, poi approvati dal Parlamento a maggio, oltre a stilare norme più specifiche in materia di asserzioni ambientali e un divieto generale di pubblicità ingannevole», nota Guglielmin.

Se si pensa alla sostenibilità e all’ambiente d’istinto si dovrebbe uscire dalle Big Oil. Ma ha davvero senso? E se invece fossero parte della soluzione? Nel caso dell’Europa, già oggi stanno investendo pesantemente in rinnovabili, e solo rimanendo investito si potrebbe influenzarle ad accelerare gli sforzi

Andrea Biscia

Andrea Biscia

Analista Private Markets & Esg di Decalia Group

Un problema significativo per le dimensioni che il relativo mercato ha assunto nel corso degli ultimi anni, e tale da sollevare qualche perplessità sull’efficacia di molti controlli, e fiumi d’inchiostro, specie in quella che dovrebbe essere la macroregione più avanguardista in materia. «Solo un decennio fa sarebbero stati relativamente pochi investitori a riservare un minimo di attenzione ai rapporti di sostenibilità, oggi l’Esg è mainstream e spesso al centro del processo d’investimento, seppur sulla base di questi dati. Secondo Morningstar tra aprile e giugno di quest’anno a livello globale i fondi sostenibili hanno raccolto 71,1 miliardi di dollari, spingendo il gestito oltre la soglia del trilione, con una forte accelerata. Nel Regno Unito la raccolta tra aprile e luglio ha già superato i flussi aggregati dei cinque anni precedenti, secondo Calastone. Ad accendere l’interesse degli investitori sta contribuendo la consapevolezza che avere e raggiungere obiettivi ambientali ambiziosi in molti casi sia anche sinonimo di una buona gestione aziendale», sintetizza il responsabile di Abrdn.