TM   Marzo 2024

La democrazia ai tempi del 2024

Nonostante i molti acciacchi che gli stati liberali negli ultimi anni stanno dimostrando, la democrazia rimane il ‘meno peggio’ delle attuali possibili alternative, meglio se coadiuvata da organismi indipendenti specializzati. Lo scontro tra democrazia e tecnocrazia è il frutto delle tensioni sociali che segnano una fase storica complessa, e che dovrebbero essere riconciliate in sede elettorale, allineando le preferenze dei rappresentanti con quelle dei rappresentati. Intervengono Joseph Briggs, Senior Global Economist di Goldman Sachs Global Economics Research; Elena Guglielmin, Cio di Ubs Wealth Management; Kevin Gardiner, Global Investment Strategist di Rothschild&Co Wealth Management; Norman Villamin, Group Chief Strategist di Union Bancaire Privée; Jack Janasiewicz, Lead Portfolio Strategist di Natixis Investment Managers Solutions; e Oscar Mazzoleni, professore di scienze politiche dell’Università di Losanna.

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Tra le tante conquiste che il mondo antico ha consegnato alla modernità, seppur a distanza di diversi secoli, sicuramente svettano le libertà politiche, e forme di governo estremamente evolute e articolate per l’epoca, e paradossalmente ancora oggi, quindi in netta opposizione con prima il Medioevo e poi la storia moderna. Nonostante infatti i libri di storia tramandino vita, morte e miracoli di re, faraoni e imperatori, quali utili ancore cui aggrapparsi per una disamina seppur approssimativa affidabile di come il Mediterraneo sia evoluto nelle ultime migliaia di anni, non va mai dimenticato quale sia stato l’apice di questa parabola, culminata con le conquiste, e in più d’un ambito, della Grecia classica prima, e di Roma poi. Per quanto non tutto sia come sembra.

L’Europa è infatti culla e patria della oggi vituperata e cagionevole democrazia, nata in Grecia (da qui il forte significato simbolico di ammetterla nel 1981 all’Unione Europea, e nel 2001 nell’Eurozona, pur al netto di bilanci notoriamente fantasiosi), e che ha toccato il suo massimo splendore nell’Atene di Pericle, dunque nel V secolo a.C., per poi passare il testimone a Roma dove riscoprirà una nuova giovinezza. Eppure, nonostante il termine stesso sia greco, e significhi letteralmente ‘governo del Popolo, è bene non cadere in un facile fraintendimento. In una chiave di lettura più moderna e compiuta la democrazia non è mai esistita, e non solo per una geometria molto variabile di quale ne fosse il popolo; parimenti la democrazia greca era completamente diversa da quella romana; per quanto, e qui la comunanza, fossero convintamente improntate sulla base del censo. In entrambi i casi il protagonista indiscusso della scena politica era il cittadino maschio, elettore e potenzialmente eletto, in quanto fiero difensore, se necessario in armi, della patria.

Ad Atene, e in generale in tutte le principali Città stato greche, a patto non fossero sotto temporanea dominazione di una rivale, vigeva un Governo democratico in cui le cariche politiche erano equamente spartibili, per elezione o sorteggio, tra tutti i cittadini che dimostrassero di avere un reddito sufficiente, andato nel corso del tempo abbassandosi. In questo senso Atene era a tutti gli effetti una democrazia diretta, in cui il Popolo era consultato o si esprimeva su tutti i temi più importanti della vita politica, tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge, e i loro rappresentanti rispondevano al termine del mandato di tutte le loro azioni. L’estrema modernità, seppur relativa, di tale modello era consentita in larga misura dal numero contenuto dei cittadini interessati, nel suo massimo splendore potrà infatti contare su 250mila abitanti, di cui la metà schiavi, dunque su circa 50mila cittadini effettivi, una parte dei quali in armi e molto spesso all’estero.

A Roma la situazione era decisamente più complessa e articolata, ma al tempo stesso più stabile nel tempo, imprescindibile se si considerano le necessità di una super potenza regionale. Era sì una repubblica, ed è qui che è nato il termine, ma nonostante i cinque secoli di epoca repubblicana le differenze con Atene sono molte. Fermo restando il censo, pietra angolare dello Stato romano, il sistema istituzionale che ne consentiva l’efficiente funzionamento prevedeva costituzionalmente la convivenza di tre forme di società, il cui ibrido era la repubblica stessa. Come scrive lo storico romano Polibio i tre organi dello Stato erano i due consoli, che assommavano le prerogative tipiche di una monarchia nei loro ambiti di competenza, il senato, tipica espressione dell’aristocrazia terriera, e il popolo, una forma molto sfaccettata e greca di democrazia.

Tali peculiarità sono perfettamente riassunte in Spqr, ‘il Senato e il Popolo di Roma’, in cui già si segnala la fondamentale differenza tra le due entità, che seppur in presenza di sostanziali differenze eleggono insieme i magistrati, il terzo elemento del quadro istituzionale. La fondamentale differenza rispetto alla modernità vive però nel concetto stesso di rappresentanza: i magistrati non erano espressione del popolo nel corso del loro breve mandato, al pari del Senato, i cui membri non erano eletti e lo rimanevano sino alla morte. La strutturazione di quella che oggi verrebbe definita ‘legge elettorale’, soggetta a ben poche modifiche e modulata sulla base del censo, nei fatti solo in rare circostanze prevedeva fossero ammessi al voto i ceti meno abbienti, il che è comprensibile se si pensa che diversamente da Atene già nel 225 a.C. gli aventi diritto erano oltre 300mila, e nell’88 a.C. oltre 1,7 milioni.

Le elezioni delle diverse magistrature avvenivano solitamente su base annuale, e nella maggior parte dei casi vedevano la partecipazione di meno di 20mila elettori in grado di trovare un’intesa. I cittadini erano infatti convocati alle urne per fasce di reddito, a partire dai più abbienti a scendere, in cui ogni fascia definiva a maggioranza i suoi candidati. La proporzionalità inversa del numero di fasce e il reddito garantiva matematicamente ai primi 20mila elettori, a patto non vi fosse un’eccessiva dispersione delle preferenze, di avere sempre la maggioranza. Dunque effettivamente esisteva sì una componente nominalmente democratica anche nell’ordinamento repubblicano romano, ma concretamente un po’ debole.