TM   Ottobre 2023

La cultura è tutto

Alla base di moltissimi problemi, e negli ambiti più disparati, si trova molto spesso un problema di matrice culturale, che se non risolto, e soprattutto accettato, rischia di limitare progetti e persone che potrebbero invece cambiare il mondo.

di Federico Introzzi

Trinity of management. Una definizione quanto meno altisonante, ma che nella sua essenziale semplicità ha la forza di un’atomica, del resto non si è sempre detto che sono in capo allo startupper tutte le responsabilità del suo progetto? Sempre per lo stesso motivo vengono organizzati e promossi fior fior di agoni, promessi generosi premi, consegnati alle stampe articoli e interviste… e se non fosse così? O ancora meglio, se non dovesse finire sempre così andrebbe comunque ancora bene?

È il caso di un giurato, anzi, il presidente stesso della giuria dell’ultima Ated Digital Night, che assolvendo in pieno alla sua funzione… ha deciso di non votare per nessuno dei sei progetti in lizza. «Non voto mai se si tratta di dover scegliere un vincitore. Del resto, chi sono io rispetto a un’idea, un progetto, portato avanti magari per anni? Quello che dovremmo cercare tutti di fare è incoraggiare il maggior numero di persone a provare, e promuovere il loro progetto, trasformando quelle che inizialmente erano idee in un modo per vivere, prima’ancora che per far soldi. Dovremmo incoraggiare l’imprenditorialità, anche quale forma mentis, spingendo i più giovani a ragionare out of the box, mettendosi in gioco», esordisce così Ernesto Sirolli, Ceo e fondatore del Sirolli Institute di Sacramento.

Ma cosa dovrebbe essere votato, il progetto o la persona? Una domanda lecita, specie nel caso di quelle che sono ancora idee, destinate a rimanere tali per diverso tempo. «Secondo Tommaso Esmanech la valutazione dovrebbe riguardare esclusivamente le persone, o ancora meglio, la composizione del team e la qualità dei suoi elementi, prescindendo quasi del tutto dal progetto. Nel caso della maggior parte degli acceleratori viene data eccessiva attenzione al progetto, e troppo poca alle persone che devono animarlo. Quello che propongo io, ormai da anni, è quella che definisco Trinity of Management: avendo individuato le tre dimensioni di qualunque business (prodotto, mercato, finanza), e affidata ognuna a un membro del team, è l’interazione tra questi a dare risultati straordinari, di cui dunque l’idea è solo un terzo», prosegue l’esperto.

Ated Innovation Day
Ernesto Sirolli, Ceo e fondatore del Sirolli Institute di Sacramento, e Cristina Giotto, presidente e direttore di Ated, all’Ated Innovation Day.

Ambiti diversi gestiti da persone e mentalità tra loro altrettanto diverse, unite da un unico chiaro obiettivo: fare bene, farlo insieme. «Osservare un problema da tre punti di vista differenti può spesso fare la differenza, del resto è poco utile avere un prodotto straordinario se nessuno sa che esista; al pari è altrettanto inutile sapere cosa voglia il mercato se poi non si può soddisfare tale domanda, senza dimenticare che è ancora altrettanto indispensabile sapere quale debba essere il suo giusto prezzo, con tutti i riflessi del caso sul prodotto stesso. È un circolo virtuoso, in cui i tre membri del team devono interagire continuamente, calibrando instancabilmente il progetto, adeguandolo alle nuove mutate circostanze», analizza Sirolli.

In un mondo improntato alla specializzazione estrema, con decine di figure professionali specializzate in compiti apparentemente identici, pensare che un’unica persona, lo startupper, possa assommare queste tre dimensioni può sembrare a tratti… stregoneria? «I professori che insegnano imprenditorialità, leggendo ad esempio libri e casi di successo, sono terribilmente simili a suore che insegnano il sesso. Il problema fondamentale che pongono i programmi di accelerazione è nella misura in cui distorcono la percezione del mercato dei partecipanti, che cercheranno di soddisfare i desiderata dei professori, competendo tra loro, per vincere premi in denaro. Circostanze tutt’altro che verosimili nella vita di tutti i giorni. Quello che sarebbe utile fare durante questi percorsi è aiutare a formare il team al meglio, spingere gli ‘uomini mercato’ a indagare i reali bisogni delle persone (la domanda), abbozzare un’idea (l’offerta), e valutare l’efficacia del team formatosi (la start up). A comandare è sempre la domanda, come un qualunque imprenditore ha scoperto, spesso a sue spese», riflette l’esperto.

Il cambio di paradigma è più che sostanziale: incoraggiare la formazione di un team è l’ammissione stessa dell’impossibilità di un singolo di poter vincere la sfida in solitaria. Un salto in avanti quantico, al pari della consapevolezza di dover presidiare queste tre dimensioni: prodotto, mercato, finanza. «Un buon esperimento, e tanti auguri per il risultato, è chiudere in tre stanze distinte i rappresentanti delle tre sfere. Nella prima sarebbe la bolgia, tutti decanterebbero le proprie abilità e gli atout dei rispettivi prodotti; nella seconda sarebbe il silenzio, l’uomo mercato è ben disposto ad ascoltare i bisogni degli altri; nella terza meglio non pensarci. È quando i secondi incontrano i primi che è la meraviglia, sono consapevoli di non avere un prodotto, e non vedono l’ora di averne uno, quando lo trovano non se ne separano più, e cambiano il mondo. Mettono a sistema le diverse competenze, potendo eccellere nei rispettivi ambiti grazie al talento degli altri, facendo ciò che più gli dà gioia, vendere», chiarisce Sirolli.

Gli americani fanno business, come gli italiani imbandiscono la tavola. I primi lavorano con passione e in squadra, tanto da aver introdotto la figura del management per coordinare team anche molto grandi, i secondi dedicano incredibili energie e molta passione a far da mangiare, una dimensione ampiamente condivisa con gli altri. Entrambi lo fanno per istinto, senza doverci riflettere, con risultati assolutamente straordinari

Una serie di banalità, di evidenze messe l’una in fila all’altra, ma proprio per questo tutt’altro che scontate. «In tutto questo l’educazione ha un ruolo fondamentale, le persone non sanno di dover fare determinate cose, ma per evitare che si facciano inutilmente male è indispensabile che vi sia qualcuno disposto a dirglielo, che è un po’ quello che ritengo essere il mio ruolo. Il principale contributo che gli americani hanno apportato al mondo dell’impresa è il management: la massima espressione della divisione del lavoro necessaria per far funzionare colossi da decine di migliaia di impiegati, nati durante la rivoluzione industriale. Negli anni tutte le imprese hanno adottato questa impronta, le ultime rimaste? Le imprese a conduzione familiare, in cui l’imprenditore vuole ancora fare tutto, e le start up, dove non ha ancora attecchito l’idea. Ed è su questo che dovremmo lavorare», chiosa l’esperto.

A questo punto, sorge spontaneo domandarsi quale sia la differenza tra le due sponde dell’Atlantico, dunque, come approccino il business europei e americani. E anche in questo caso… «Lo scarto è di matrice squisitamente culturale, non si tratta di dire chi sia più bravo. Gli americani fanno business, come gli italiani imbandiscono la tavola. I primi lavorano con passione e in squadra, tanto da aver introdotto la figura del management per coordinare team anche molto grandi, i secondi dedicano incredibili energie e molta passione a far da mangiare, una dimensione ampiamente condivisa con gli altri. Entrambi lo fanno per istinto, senza doverci riflettere, con risultati assolutamente straordinari», rileva Sirolli.

Dire se questo sia la causa o l’effetto delle dimensioni delle imprese che compongono il tessuto economico e produttivo delle due regioni è certamente difficile, ma qualcosa si può comunque dire. «Il problema degli americani è però che non sanno quanto sono grandi, e quello che possono davvero fare, culturalmente sono rimasti dei bambinoni, e si vede. Il 65% dei Ceo della Silicon Valley non sono americani, e non perché non ne avrebbero le capacità. Gli europei si ostinano invece a rimanere divisi, senza eccessive differenze negli ultimi 3mila anni, non capendo che unendosi, e riallacciando anche con Londra, potrebbero competere seriamente anche con gli Stati Uniti, segnalandosi quale polo mondiale. La dimostrazione? Gli europei non hanno una lingua comune, e parlano tra loro con una certa difficoltà, non spingono sullo studio delle lingue, e i mercati nazionali restano il riferimento. Questo sarebbe del tutto inconcepibile per un americano, già solo culturalmente», nota l’esperto.

Alla base di tutto, dunque, il vero problema è destinato a essere sempre e solo culturale, come nell’archetipo moderno di start up? «Ho studiato psicologia, e mi definisco agevolatore d’impresa. Faccio parte di una famiglia di medici e farmacisti da sette generazioni, e a modo mio ho deciso di assistere ‘pazienti’, semplicemente diversi, applicando un approccio umanistico al business, mettendo sotto gli occhi delle persone disposte a vedere quelle che viste da fuori sono semplici evidenze, non così evidenti dall’interno. Il messaggio che voglio far passare è che nessuno può eccellere in tutte le tre dimensioni, ed è per questo che è meglio specializzarsi, nel farlo si diventa però dipendenti da almeno altre due persone. Una dipendenza non semplice da accettare, ma necessaria. Del resto, nessuno può fare tutto, da solo», conclude Ernesto Sirolli.

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