L’andamento dei tassi di interesse è cruciale per ogni investitore, perché determina il valore degli asset sia direttamente, attraverso la normale relazione inversa, sia indirettamente, influenzando la domanda e quindi la redditività delle imprese. Dopo un decennio di livelli bassissimi e senza precedenti, dal 2022 i tassi sono saliti molto rapidamente, dando violenti scossoni ad azioni e obbligazioni. Il picco di questo ciclo è stato raggiunto: difficilmente le Banche Centrali avranno bisogno di rincarare la dose, la riduzione dell’inflazione ha infatti già di per sé reso più restrittive le politiche monetarie in termini reali e si stanno via via dipanando gli effetti della stretta già messa in atto. In più, proseguirà la vendita dei titoli già a bilancio e questo manterrà una pressione all’insù sui rendimenti di questi titoli, che si aggiunge a quella delle nuove emissioni sovrane per finanziare deficit pubblici ancora molto ampi.
Se il picco è stato toccato, vuol dire che il movimento successivo è all’ingiù. Tendenza già cominciata, se si guarda ai rendimenti delle varie scadenze. Ma si è trattato, finora, di uno smottamento che ha solo annullato l’ultima impennata, di ottobre. Perché il percorso continui occorre che si verifichi una condizione.
La condizione è che la diminuzione dell’inflazione si confermi e prosegua verso il 2%, considerato il limite invalicabile per garantire la stabilità monetaria. Qui si trova il primo ostacolo alla rapida diminuzione dei tassi, perché la decelerazione dei prezzi al consumo osservata fino ad adesso è stata facilitata dal rientro del costo dell’energia e di altre materie prime. Anche le interruzioni alle catene del valore sono venute meno e ciò ha fatto diminuire i costi dei trasporti e di molte componenti. Infine, le imprese manifatturiere stanno praticando sconti per incoraggiare la domanda.
Adesso, invece, viene la fase più lunga e lenta del rientro dell’inflazione, quella legata alla moderazione salariale. Le retribuzioni stanno cercando di recuperare la grande perdita di potere d’acquisto subita dal 2021 in poi, e tuttora in corso. Lo possono fare perché il mercato del lavoro è del venditore: ci sono molti più posti disponibili che disoccupati. Ciò agisce soprattutto su costi e prezzi del terziario, la cui attività è molto intensiva di lavoro. E i servizi hanno il peso di gran lunga maggiore nel paniere dei prezzi.
Il secondo ostacolo al veloce calo dei tassi è nel mutato atteggiamento delle Banche Centrali (gli economisti la chiamano ‘funzione di reazione’). Fino al 2021 inoltrato la loro convinzione è che si fosse in un mondo dove il pericolo maggiore fosse la deflazione, molto pericolosa aumentando il carico dei debiti e perché è difficile da contrastare, avendo i tassi di interesse un limite alla riduzione.
In quelle condizioni erano pronte a reagire a ogni stormir di fronda e correre in soccorso dell’economia abbassando i tassi o inventando altre forme di espansione monetaria. Tale convinzione era così forte che ci hanno messo un po’ a capire che l’inflazione non fosse destinata a sparire da sola. Un errore che ancora brucia e soprattutto che ha fatto capire loro che il mondo è cambiato.
Questo vuol dire che saranno molto caute nell’abbassare il costo del denaro. Per evitare di doverlo rialzare subito e bruscamente, perdendo in credibilità. Quindi, se la riduzione dei tassi d’interesse è una certezza, molto meno certi sono i tempi e la misura. È molto probabile che sarà più lunga dell’incremento e che li lascerà un po’ più in alto dei livelli del 2019, prima della pandemia.