Il tema dell’Asset Allocation Strategica (Aas) è tuttora molto dibattuto. C’è chi ritiene che l’essenza della Gestione siano le scelte tattiche e che pertanto una strategia di Asset Allocation sia inutile. All’altro estremo, ci sono coloro che la ritengono essenziale proprio per dare un quadro di riferimento alle scelte tattiche, ma che interpretano l’aggettivo ‘strategico’ in senso assoluto: proprio perché non è tattica, la strategia non deve mai cambiare. Chi scrive ritiene che la scelta di avere una strategia di Asset Allocation non implichi necessariamente un suo totale immobilismo.
Il momento attuale è particolarmente indicato per riflettere su possibili cambiamenti della Aas: limitandosi alle asset class principali, ci si trova infatti in una situazione in cui le obbligazioni, dopo un periodo di tassi vicini a zero o negativi durato una dozzina d’anni, sono tornate a offrire rendimenti più elevati mentre le azioni sono quasi ovunque ai massimi storici. È sensato dunque chiedersi cosa si ottiene applicando oggi i più comuni modelli di ottimizzazione.
Ottimizzare la Aas significa identificare la combinazione delle classi d’investimento che massimizzano il rendimento atteso sui prossimi 5-10 anni per un dato livello di rischio. I due input fondamentali sono dunque i rendimenti e il livello di rischio attesi. Limitandosi al mercato americano, cosa emerge dai dati?
Utilizzando criteri di valutazione che paragonano il livello dell’indice S&P500 a quello degli utili effettivamente realizzati dalle aziende negli ultimi anni, un approccio che il premio Nobel Robert J. Shiller ha mostrato avere un significativo potere previsionale sui rendimenti decennali, l’unica conclusione possibile è che i mercati azionari siano in questa fase più cari del solito. Di conseguenza, il rendimento che ci si può attendere da essi nei prossimi 10 anni è più basso del solito.
Ciò non vale per le obbligazioni, che appaiono in linea con la loro valutazione media nel lungo termine. Per l’analisi si è dunque ipotizzato un rendimento atteso annuo del 6,4% per le azioni e del 3,8% per i titoli di Stato. Questa ipotesi non pare lontana dal senso comune: in fondo, il rendimento atteso dalle azioni resta ben superiore a quello dei bond. Che però la differenza fra i due livelli sia minore del solito porta a conclusioni radicali.
Il secondo elemento chiave è il rischio atteso. I modelli tradizionali misurano questo elemento tramite la volatilità dei rendimenti. Modelli più recenti suggeriscono invece di misurarlo tramite il livello medio dei grandi ‘drawdown’, ossia la massima perdita possibile in un certo periodo. Seguiremo questo secondo approccio che pare riflettere meglio la preoccupazione degli investitori privati.
Applicando tale approccio, si ottiene l’Aas riportata, che evidenzia quattro punti degni di particolare rilievo. Primo: fra gli asset a rischio, le obbligazioni High Yield paiono relativamente più attraenti delle azioni (il che deriva direttamente dalle ipotesi sopra descritte sui rendimenti attesi). Secondo: l’oro svolge un ruolo centrale nel contenimento dei drawdown per i portafogli meno aggressivi (un elemento di solito sottovalutato dai modelli tradizionali a causa dell’elevata volatilità del metallo giallo). Terzo: le obbligazioni indicizzate all’inflazione appaiono più efficienti di quelle ordinarie (anche a seguito della loro migliore resistenza alla forte caduta dei prezzi nel 2022). Quarto: la crescita del rendimento atteso di portafoglio all’aumentare del livello di rischio è probabilmente minore di quanto ci si potrebbe attendere (anche in questo caso la causa è da ricercare nelle prudenti aspettative di rendimento azionario).
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