Sculture progettate per muoversi, emettere suoni, interagire con lo spazio – e, in certi casi, persino autodistruggersi. Realizzate con materiali non convenzionali, come oggetti di uso quotidiano o scarto, ingranaggi e motori, saldati con una manualità ineguagliabile, estro visionario, ironia e poesia, hanno consacrato Jean Tinguely “miglior fabbro” del Novecento. La loro conservazione richiede pertanto di preservarne non solo l’estetica, ma anche la meccanica e l’anima, con un livello di competenza che va oltre gli standard.
«La manutenzione si fonda sull’osservazione quotidiana e su misure preventive e strategie di conservazione specifiche per ridurre al minimo i rischi di danni ed evitare interventi diretti. Ogni scultura richiede ispezioni regolari e una documentazione minuziosa per comprendere innanzitutto il funzionamento, la diversità dei materiali e l’intenzione artistica», racconta Jean-Marc Gaillard.
Ex-assistente di Tinguely, da quasi quarant’anni si prende cura delle sue creature, da 23 anni presso il Centro di competenza in conservazione e restauro del Museum Tinguely di Basilea, che ospita la maggiore collezione di opere dell’artista: più di 200 sculture, oltre la metà esposte in permanenza.


Tutto parte dall’ascolto: «Se il suono cambia, è segno che una componente si sta usurando, una cinghia si sta allentando o una saldatura sta cedendo», osserva Gaillard, le cui giornate iniziano sempre da un giro a porte chiuse nel museo. Finché era in vita, Tinguely interveniva di persona trovando nuove soluzioni, ma dalla sua scomparsa nel 1991 il paradigma è cambiato. «La regola: sostituire un pezzo originale solo con uno identico, stessa epoca e provenienza per non snaturare l’opera. Questo comporta un lavoro da detective: perlustriamo mercatini da Roma a Londra e New York, passiamo ore e ore a scorrere elenchi online, affidandoci a nostra volta a una rete di meccanici, rigattieri e appassionati con competenze molto specifiche sparsi per il mondo. Il modo di lavorare di “Jeannot”, con materiali di fortuna, recuperati nelle città in cui si trovava, complica non poco identificarli, spesso non hanno nemmeno un nome di riferimento con cui ricercarli. Possono volerci anni. A volte diventa un’ossessione».
Il Centro di competenza del Museum Tinguely offre inoltre assistenza a musei, istituzioni, case d’aste e collezionisti in tutto il mondo. È raro che i conservatori abbiano familiarità con opere cinetiche. «A volte ci raggiungono a Basilea per sessioni di workshop, altre ci rechiamo noi sul posto. In poche ore, si deve capire cosa si possa fare, mentre idealmente entrare in sintonia con queste opere richiede una lunga convivenza. E, ovviamente, chi sta di fronte vorrebbe sentirsi dire che può farle funzionare senza limitazioni. Quando però capiscono che danneggiandosi perderebbero il loro valore, si mostrano più sensibili», spiega l’esperto.

Il centenario ha moltiplicato le richieste di prestiti, a partire dalla grande mostra all’Hangar Bicocca di Milano, poi il Lehmbruck Museum di Duisburg e il Grand Palais di Parigi e, dal 21 novembre, al Mahf di Friburgo. «Dallo scorso autunno avrò passato sei mesi all’estero. Accompagniamo sempre le nostre opere nelle trasferte. Solo a Milano, sono stato oltre un mese insieme a un team di sette collaboratori esperti a cui chiedo appoggio in queste occasioni. Ma capita di andare anche molto lontano, New York, Giappone, persino una volta in Tasmania», prosegue il conservatore del Museum Tinguely. Le più impegnative sono le trasferte via mare, cui si ricorre per le lunghe distanze e opere molto grandi. «Dobbiamo costruire apposite casse per proteggerle dalle vibrazioni e dall’umidità, ma non totalmente ermetiche per evitare muffe. Sul posto va poi verificato che ci siano le strutture necessarie per reggerle, considerato che possono raggiungere un migliaio di chili».
Durante le mostre, l’assistenza prosegue a distanza, grazie all’ausilio della tecnologia. Si fa sempre poi attenzione a garantire periodi di riposo. Con le giuste cautele e se curate da mani esperte, le sculture dovrebbero potersi muovere ancora per decenni. Il conservatore si mostra invece scettico sulle copie integrali in stampa 3D: «Possono ingannare l’occhio, ma sono troppo lontane dallo spirito originario. Documentiamo invece con filmati il funzionamento di opere troppo delicate per essere messe in azione. Un’alternativa sono gli ologrammi, che con i visori Ar hanno una resa eccezionale e possono evitare spostamenti troppo impegnativi, considerate le difficoltà logistiche e i costi assicurativi, oltre che poco ecologici. Certo, poter vedere le opere in presenza, è insostituibile. È dal contatto diretto che ho imparato a conoscerle e a prendermi cura di loro», ricorda Jean-Marc Gaillard.

Tinguely lo incontrò per la prima volta a fine anni Ottanta, sul cantiere della monumentale testa del Cyclop, 22,5 metri di altezza e oltre 350 tonnellate, a Milly-la-Forêt, a sud-est di Parigi. «Eravamo pagati solo 100 franchi al giorno, con anche 15 o 16 ore di lavoro. Eppure mi fermai a lungo: a interessarmi di più non era la tecnica ma, la sera, quando ci si ritrovava a tavola insieme a Niki de Saint Phalle, Daniel Spoerri, Rico Weber, Arman e tanti artisti che affiancavano Tinguely nel progetto, ascoltarne le storie e capire cosa stava dietro il loro lavoro… Ho cercato di immagazzinare ogni dettaglio come un disco rigido. E ancora oggi, mi capita di fare un gesto, magari un errore, e… tac! riaffiora alla mente un’osservazione. Quarant’anni dopo è come se Tinguely fosse qui con me. Sono momenti di illuminazione e commozione: dopo tutto per dedicarmi alle sue opere ho rinunciato alla mia carriera di artista, ma se volevo fare bene questo mestiere era necessario dare il 125%», confessa Jean-Marc Gaillard.
Un fuoco sacro che cerca di trasmettere a chi gli succederà quando fra quattro anni andrà in pensione, e anche ai visitatori del museo. «Non perdo mai l’occasione per ricordare che Tinguely non era “solo” un grande artista, ma un appassionato di auto da corsa e di belle donne. Aiuta a capire il suo modo di lavorare: bene ma veloce, per potersi dedicare anche alle sue altre passioni. Così come non va dimenticato che usare materiali di recupero non era solo una provocazione alla civiltà del progresso e del consumismo, ma una necessità, non avendo i mezzi per acquistare motori e attrezzature nuove. Ha saputo mettere insieme tutto questo per esprimere il suo spirito e, al contempo, per accreditarsi e farsi una posizione in società».

Anche nel nostro presente di mirabilia tecnologiche, le sculture cinetiche di Tinguely continuano ad avere un successo trasversale. L’anniversario ha contribuito, come si è visto dalle quotazioni ad ArtBasel. Ricercatissime le fontane, che con i loro spruzzi aggiungono una quarta dimensione: «Di grandi, come quella nel nostro giardino o la Strawinsky del Centre Pompidou, ce ne sono solo cinque, una ventina di piccole, che lui costruiva soprattutto negli anni Sessanta per i giardini dei suoi amici e oggi sono contese da collezionisti di tutto il mondo, malgrado la complessa manutenzione richiesta dalla corrosione dell’acqua», conclude Jean-Marc Gaillard, ora alle prese con una scultura cinetica che a breve ornerà l’ingresso della nuova sede di una banca. Il motore, proveniente un grammofono di inizio Novecento, ha posto una sfida non indifferente. Accendendo l’entusiasmo del Centro di competenza in conservazione e restauro del Museum Tinguely di Basilea, in costante movimento proprio come le opere cinetiche che custodisce, nel presente e per il futuro.
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