Spesso chi si rivolge a un business coach si aspetta una soluzione istantanea: un metodo pronto all’uso, strumenti immediati. Ma Anthony Smith, executive business coach di fama internazionale, mette subito in guardia chi lo interpella: «Posso proporti il miglior metodo del mondo, ma se vuoi ottenere risultati diversi, per prima cosa devi agire diversamente. E per farlo devi diventare una persona diversa».
Un obiettivo che richiede coraggio, lavoro su sé stessi e la capacità di affrontare le responsabilità senza puntare il dito su collaboratori o fattori esterni quando qualcosa non funziona. In questa intervista, Anthony Smith racconta come diventare artefici del cambiamento – personale e organizzativo – e quali strumenti rendano un leader capace di guidare il proprio team con efficacia.
Anthony Smith, perché sostiene che per diventare un leader più efficace occorra prima conoscere sé stessi?
Perché prima di essere professionisti, siamo persone. E se migliori te stesso, i risultati arriveranno di conseguenza. Lavorare su di sé significa andare in profondità, guardare alla propria storia e individuare schemi ripetitivi: errori ricorrenti, reazioni automatiche che ci limitano, ma anche successi da cui trarre forza. Conoscersi è la base per capire che ci sono anche altre opportunità e per scegliere quali obiettivi darsi, costruendo un piano dettagliato per raggiungerli e, poi, per mantenere la motivazione. Spesso chiedo a imprenditori e manager che mi contattano se abbiano mai fatto un corso di crescita personale: purtroppo la risposta è quasi sempre no.
Come si traduce questo approccio nel suo lavoro con un imprenditore?
Lo metto davanti allo specchio. Spesso i clienti arrivano da me convinti che il problema siano i collaboratori: “Gliel’ho spiegato decine di volte e non lo fa!”. Ma prima di dare la colpa agli altri bisogna chiedersi: la mia comunicazione è davvero efficace? Sto trasmettendo in modo chiaro la visione? Sto dando il giusto contesto? Da qui inizia un percorso strutturato in cinque fasi:
1. Chiarezza di visione. Un leader deve sapere dove sta andando l’azienda. Serve non solo a livello strategico, ma anche per creare senso di appartenenza e impegno nei collaboratori.
2. Dati e monitoraggio. Come in un’auto, serve un cruscotto che indichi l’andamento. I dati vanno non solo raccolti, ma anche analizzati e condivisi con il team.
3. Momenti di condivisione. Riunioni strutturate, brevi e basate su fatti e numeri, non su emozioni e opinioni, per mantenere tutti allineati sulla rotta.
4. Ruoli e processi. Creare flussi di lavoro chiari e mansionari dettagliati, con obiettivi, compiti, competenze e qualità individuali richieste.
5. Feedback costruttivi. Dare riscontri, positivi o negativi che siano, per correggere la rotta senza affossare la motivazione.

Un approccio così strutturato è sostenibile anche per una piccola azienda?
È proprio nelle piccole realtà che funziona meglio. Se inizi dal giorno zero con processi chiari, eviti che ogni persona lavori “a modo suo”. Nelle grandi aziende che non hanno mai fatto questo lavoro, introdurlo è molto più complesso: ci sono abitudini radicate e resistenze al cambiamento. Certo, fare un percorso di coaching ha un costo… Ma la vera domanda è: quanto costerà non farlo? Crescere come leader significa creare le condizioni per non farsi travolgere dal cambiamento, ma guidarlo.
Quanto è importante il coinvolgimento del team?
È fondamentale: il coinvolgimento genera impegno. Se i collaboratori partecipano alla creazione della visione o di un processo, non lo subiscono: lo sentono proprio. Per esempio, quando si creano i mansionari, chiedo all’imprenditore di scriverne uno ‘ideale’ per il ruolo – mai ad personam, se si vuole crescere bisogna professionalizzarsi strutturando funzioni di riferimento. Poi domando al collaboratore di fare lo stesso. Infine si confrontano le due versioni per stabilire quella definitiva. È una base condivisa che facilita i feedback successivi.
Dare feedback negativi è uno degli aspetti più delicati.
Qui entra in gioco il “metodo sandwich”: iniziare con un commento positivo, inserire la parte critica in modo costruttivo e chiudere con un rinforzo positivo.
Porto l’esempio di un collaboratore problematico – lo chiamerò Michele – che mi sono trovato a gestire come Sales Director di Nike Italia. Conosceva il mercato e i clienti meglio di chiunque altro, aveva numeri eccellenti e un grande carisma. Ma in azienda, quell’energia si trasformava in negatività: commenti demotivanti, aperta opposizione alle strategie. Affrontarlo di petto avrebbe solo portato allo scontro. Durante il colloquio di feedback ho allora iniziato da un commento positivo, ‘la prima fetta di pane’: “Michele, tu sei il nostro punto di forza, conosci il mercato meglio di chiunque altro, i clienti ti adorano”.
Poi il ‘ripieno’ indigesto, facendo però attenzione a preservare quell’onda comunicativa positiva creatasi senza introdurre affermazioni negative: “E ti dico di più: se usassi questa capacità anche all’interno dell’azienda, mi saresti di grande aiuto”. A questo punto ho elencato i suoi comportamenti problematici: “La scorsa settimana, in riunione, il tuo intervento ha minato il lavoro del gruppo. Questo non aiuta né te né noi. Se hai idee alternative, portale a me prima”.
Infine, la ‘seconda fetta di pane’, con una chiusura costruttiva: “Fammi vedere questa svolta. Voglio che tiri fuori il massimo della tua potenzialità”. Ha funzionato: Michele ha cambiato atteggiamento, e il team ha ritrovato equilibrio.
Qual è l’errore più pericoloso per un leader?
Ignorare comportamenti dannosi solo perché chi li mette in atto è ‘troppo bravo per perderlo’. È un messaggio deleterio per il resto del team: “Le regole non valgono per tutti”, “Il capo non ha il coraggio di intervenire”. Così si perde fiducia e motivazione.
Invece uno strumento irrinunciabile?
Le domande. Saperle utilizzare cambia la vita. Servono non solo a capire competenze e obiettivi, ma anche a prevenire conflitti e incompatibilità che possono minare un team.
Qualcuno potrebbe anche dire che queste sono cose già sentite e risentite…
Ma il punto non è averle sentite: è averle applicate. Ognuno è diverso, per questo prima di sperimentare occorre lavorare su di sé e, ovviamente, è un processo che richiede tempo. Un coach ti porta a capire cosa fare, ti dà strumenti e un metodo, però lo sforzo dovrai farlo tu.
Quando in Nike mi hanno promosso a Sales Director Italia, dissero di avermi scelto non perché fossi il miglior venditore, ma perché sapevo tirare fuori il meglio dalle persone. Ho capito solo allora che non è una qualità scontata per un leader. Ed è ciò che mi ha spinto a diventare executive business coach: per aiutare altri a fare lo stesso. Perché il vero leader non è chi ha tanti follower, ma chi sa creare altri leader.
Nato negli Stati Uniti, Anthony Smith ha sperimentato la leadership sul campo sportivo prima ancora che nel mondo aziendale, con una lunga carriera nel football americano. Dopo aver maturato una vasta esperienza come dirigente commerciale in multinazionali come Nike, dove è stato promosso cinque volte in dieci anni fino a diventare Sales Director Italia, e poi Levi Strauss Italia, in qualità di Country Managing Director, nel 2004 ha deciso di mettersi in gioco aiutando le persone a dare il meglio di sé e a tirar fuori il proprio potenziale inespresso (una sfida che racconta in Il coraggio di cambiare, fra i suoi bestseller). Oggi Anthony è executive business coach e personal coach per imprenditori e dirigenti di diverse realtà industriali e commerciali e per i loro team di manager. Supporta inoltre allenatori professionisti nelle massime serie del calcio italiano ed è spesso interpellato per interventi motivazionali e ispirazionali in convention aziendali rivolte a forze commerciali e manager, dove rivela le sue doti di grande comunicatore.
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