

Come ben ricordiamo dal 2016, quando il Metropolitan Museum of Art di New York si è ribattezzato The Met e ha sostituito il suo amatissimo logo ispirato all’Uomo vitruviano, pochi aspetti dell’identità di un museo sollevano un’attenzione critica e commenti come il logo.
Aspetto più visibile dell’identità di un museo, i loghi vengono ridisegnati per varie ragioni, di solito in risposta a un cambiamento di visione o di sede. Recentemente il London Museum ha deciso di rinnovare il proprio per entrambi i motivi: trasloco (nel mercato di Smithfield) e mutamento di nome (da Museum of London). La nuova identità – un piccione di porcellana accanto a un mucchio dorato di feci – è stata scelta sulla base di gruppi di discussione che hanno coinvolto oltre 500 partecipanti sollevando, come prevedibile, un polverone, dato il suo ruolo di museo storico di riferimento di Londra.
Senza entrare nel merito delle qualità estetiche, vorrei evidenziare alcune questioni dalla prospettiva di chi di formazione è grafico, architetto e, da una trentina d’anni, direttore di museo e, proprio di recente, ha ridisegnato l’identità di un’importante istituzione culturale italiana, la Pinacoteca di Brera.
Mettetevi nei panni del direttore del museo che vuole dimostrare la volontà della sua istituzione di ascoltare i suoi cittadini, da qui i focus group – un’intenzione del tutto lodevole e sensibile. Tuttavia, come si è visto con Brexit, una volta che il processo è avviato non può essere fermato senza ripercussioni politiche, e l’opzione di dar voce alle persone e poi dire semplicemente “no grazie” non è percorribile. Né si può essere certi che i focus group siano rappresentativi di tutti gli interessati. Quindi, in un certo senso, si può dire che, non appena iniziato il processo consultivo, il direttore fosse già in trappola.
A Brera, nonostante l’impegno per l’“ascolto visibile” e il coinvolgimento del pubblico, nel caso del logo abbiamo deliberatamente scelto di rivolgerci al più grande grafico italiano allora vivente, Franco Maria Ricci, che ha generosamente progettato un nuovo logo a costo zero che incorporava gli occhi dalle illustrazioni dell’Encyclopédie di Diderot, il motto “a occhi aperti” e il carattere tipografico Bodoni, disegnato nello stesso decennio in cui la Pinacoteca è nata, duecento anni fa. Ha così colto l’essenza del Dna semiotico della Pinacoteca, espressione dell’Illuminismo, dai cui valori è tuttora guidata, inaugurata da Napoleone nel 1809 e votata a consentire ai suoi utenti di vedere il mondo familiare con occhi nuovi.
Il logo ci dice chiaramente chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. Dal punto di vista semiotico, cosa dicono un piccione e il suo obolo dorato del rinnovato museo londinese? I piccioni non sono un’esclusiva di Londra e sono forse più associati ad altre capitali culturali come piazza San Marco a Venezia o Roma. Gli “splat” sono altrettanto diffusi, anche se forse solo Londra, in quanto capitale finanziaria, può vantare quelli dorati.
Così come sul piano creativo è importante non farsi intrappolare dal processo, su quello puramente tecnico è importante non farsi ingabbiare dall’applicabilità. Il nuovo logo del London Museum presenta una resa a mezzatinta che funziona abbastanza bene sugli schermi, ma se si considerano le altre migliaia di impieghi diversi, tra cui carta intestata, biglietti da visita, poster, affissioni e pubblicità cartacea, il team potrebbe avere difficoltà a mantenere la coerenza visiva del nuovo logo, con il rischio di indebolirne la riconoscibilità nel tempo. I loghi alla moda, spiritosi o che presuppongono conoscenze da addetti ai lavori tendono a invecchiare male.
Il Museo di Londra aprirà nella sua nuova sede nel 2026, il che lascia un margine alla direzione per trovare con tatto modi di adottare la scelta del pubblico, e possibilmente commissionare un nuovo logo. Il centro scientifico e tecnologico Nemo di Amsterdam, ad esempio, ha cambiato nome e logo quattro volte dal 1994 al 1999, finché non ha trovato un’identità grafica che esprimesse i suoi valori e parlasse al suo pubblico. Fortunatamente, a differenza del referendum sulla Brexit, c’è una seconda occasione e di chiedere a sé stessi e al proprio pubblico “ma ne siamo proprio sicuri?”.
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