
Monumentale ed eterna, verticale tanto nella sua proiezione spaziale quanto nella forza assertiva: per secoli la scultura ha glorificato divinità, eroi e sovrani, perpetuandone le fattezze e la memoria. Lo scandalo suscitato nel 1898 dalla rivoluzionarietà del Monumento a Balzac di Rodin, tanto deplorato da dover attendere quattro decenni prima di trovare la collocazione che gli era predestinata, reca in realtà eloquenti segni della ‘paternità’ di un altro artista: Medardo Rosso (1858 Torino – 1928 Milano). Un’insinuazione che avanzarono diversi critici, non certo volendo nobilitare lo scultore italo-francese. I due erano amici di lunga data, si erano addirittura scambiati opere poi rimaste nelle rispettive collezioni, anche se con la polemica i rapporti si guastarono. A Medardo spettavano infatti le invenzioni formali mutuate da Rodin per esprimere la forza creativa del sommo scrittore, ma che fecero inorridire chi aveva commissionato un canonico monumento commemorativo e si trovava davanti un ammasso in veste da camera. Se però Rodin è passato alla storia, Rosso rimane tuttora un outsider, tranne che nella sua Italia – dove in realtà ha poco vissuto, partito a trentun anni per Parigi e lì rimasto nei tre decenni centrali della sua attività.
A restituirgli la giusta statura, è la mostra appena inaugurata dal Kunstmuseum di Basilea, in programma fino al prossimo 10 agosto. A una cinquantina di sculture di Medardo Rosso sono state affiancate opere di altri artisti, da quelli a lui coevi, come Eugène Carrière, Edgar Degas e Loïe Fuller fino a nomi attuali come Nairy Baghramian, Olga Balema ed Erin Shirreff, passando da Constantin Brancusi, Alberto Giacometti, Meret Oppenheim o Louise Bourgeois. «Sono accostamenti non evidenti né prevedibili: l’intento è invitare il visitatore a soffermarsi, riflettere, cercare i punti di contatto. Non è tanto una questione di migrazione di forme ma di condivisione di idee, processi creativi e concettualizzazione dell’opera, un comune modo di interrogarsi sull’arte e sulla tradizione», spiega Elena Filipovic, Direttrice del Kunstmuseum Basel, con cui abbiamo avuto la fortuna di visitare in anteprima la mostra, organizzata in collaborazione con il mumok di Vienna, dove ha esordito nel 2024 e che a Basilea viene presentata in una nuova edizione arricchita da confronti inediti.
Se ormai i musei sempre più spesso ricorrono all’espediente del dialogo fra le loro collezioni e l’artista ospite (in larga parte per abbattere i costi di produzione e non solo per valorizzare il proprio patrimonio), in questo caso l’impostazione rispecchia una modalità espositiva cara allo stesso Medardo, che amava orchestrare ‘incontri’ fra le sue opere e quelle di altri autori. Se ne ha un saggio proprio nella sala iniziale, al pianterreno del Neubau, dove viene proposto un trio che riunisce il suo Ritratto di Henri Rouart (1890), il Torse de l’Homme qui marche di Rodin (1878-79) e le Cinque bagnanti di Cézanne (1885-87) emulando l’accostamento creato da Rosso al Salon d’Automne del 1904.

Visitando la mostra, si scopre un Medardo innovatore a 360 gradi: non solo di forme, materiali e linguaggio, ma anche nel processo creativo, per tecniche e allestimenti. Transmediale ante litteram. Mentre Rodin aveva alle proprie dipendenze un atelier per produrre in serie esemplari identici con cui presidiare il mercato, Rosso non derogò mai al controllo più minuzioso della propria opera: realizzava con le sue stesse mani ogni singolo lavoro, il che ha contribuito ovviamente a limitarne circolazione e notorietà, e oggi fa sì che ristretto ne sia il corpus di opere in possesso dei musei e ancor meno ne siano disponibili sul mercato, spingendo al rialzo le quotazioni. «Addirittura, eseguiva lui stesso il processo di fusione delle sculture in bronzo, organizzando spettacolari sedute con tanto di invitati. Ma il suo fu soprattutto un incessante lavoro di rielaborazione, come dimostra la continua insistenza su un ristretto repertorio di motivi, una quarantina circa (l’ultimo è l’Ecce Puer, raffigurante un bambino che spia il salotto paterno da dietro una tenda, del 1906), che riprende con variazioni anche minime di angolazione, dettagli e finitura. Ma non c’è un’opera uguale all’altra, come confermano le numerose varianti di uno stesso tema affiancate in mostra, persino quando il materiale è lo stesso», sottolinea la Direttrice del Kunstmuseum Basel.


Gesso e cera, di solito utilizzati per i modelli preparatori, diventano per Medardo i materiali di elezione per l’opera finita, fragili e modesti come i soggetti che raffigura. In particolare la cera – che aveva imparato a conoscere e manipolare nell’unico anno all’Accademia di Brera, dove aveva seguito i corsi di disegno della Scuola di Anatomia – con la sua precarietà fra stato solido e liquido, sempre pronta a deformarsi, viene elevata a principio stesso dell’instabilità della sua scultura, al contempo permettendo grazie alla sua malleabilità e traslucenza di sperimentare nuovi effetti atmosferici nella resa delle superfici. Ma c’è di più: consapevole del ruolo giocato dal contesto nella percezione della scultura, Rosso guarda oltre la singola opera, in almeno due sensi. Se da una parte l’ambiente circostante ‘entra’ nel personaggio, spingendolo ai confini dell’astrazione, dall’altra Medardo è attentissimo regista degli allestimenti con cui presenta le sue opere.
Sempre la grande sala con cui si apre il percorso del Kunstmuseum Basel ne offre la massima dimostrazione: al centro, un nucleo di opere dell’artista è collocato sui supporti originali, messi a disposizione dal Museo di Medardo Rosso a Barzio, gestito dai suoi eredi: non semplici piedistalli, ma vere e proprie gabbie, tanto simili a quelle poi giacomettiane, artista che ne fu ispirato dichiaratamente a moltiplici livelli. «La messa in scena era una parte essenziale del significato del lavoro di Medardo, che era convinto che nulla esistesse in modo isolato, quindi non solo progettava un ambiente più ampio intorno alle sue opere, ma stabiliva anche meticolosamente le condizioni della loro presentazione. Si serviva di queste teche munite di vetro non solo per proteggere opere fragili come quelle in gesso e in cera, ma per vincolare il punto di vista dello spettatore, imponendo una visione frontale. Noi invece, andando per una sola volta contro la sua volontà, le abbiamo collocate in posizione centrale per consentire di osservarne anche la parte posteriore, le tracce della lavorazione, l’enfasi della materialità e la radicalità delle forme», spiega Elena Filipovic, cocuratrice della mostra insieme alla Vicedirettrice generale del mumok Heike Eipeldauer.
Strumento prediletto da Rosso per studiare la percezione delle proprie opere fu la fotografia.Un altro campo in cui si dimostra pioniere. A differenza di Rodin che ingaggiava fotografi di fama per promuovere le sue sculture in modo trionfale, Medardo la integra nel processo creativo: «Scattava e sviluppava lui stesso i negativi, se ne serviva per verificare come angolazioni, luci e inquadrature influissero sulla percezione, modificava i negativi e quando otteneva il risultato a cui aspirava interveniva sul modello e poi tornava in camera oscura. Dal 1902 inizia anche a esporre queste piccole fotografie e i collage che ne ricavava accanto alle sculture, considerandole molto più di una semplice documentazione. Addirittura, servendosi della macchina fotografica come di una fotocopiatrice, immortalava ed esponeva i suoi schizzi, facendone un mezzo per approfondire le questioni che lo animavano. Tanto che, malgrado li realizzasse su supporti di fortuna, come biglietti d’invito, buste o menu, li firmava», rivela Elena Filipovic. Delle 500 fotografie note, circa la metà sono presentate in mostra.

Salendo al primo piano, in ciascuna delle sette sale, attraverso la compresenza con le opere di altri artisti, la mostra permette di comprendere come Medardo il mimetismo della tradizione figurativa si sia avviato a lasciar spazio a una destabilizzazione di strutture, canoni e forme che ancora oggi prosegue. Il suo anelito a cogliere l’istante, come l’affiorare di un sorriso su un volto, la prosaicità dei soggetti scelti, lo studio degli effetti della luce, il rapporto con le tecnologie della modernità, la serialità, ne fanno l’impressionista delle arti plastiche. Ma innovatore Medardo Rosso lo è stato in un senso ancor più radicale, sposando la feroce critica di Baudelaire alla scultura del suo tempo, bollata come noiosa, antiquata, incapace nella sua ieraticità di cogliere l’inquietudine e la transitorietà della modernità. Medardo è il primo a rivitalizzarla ribaltandone i presupposti: “Ciò che per me è importante nell’arte è dimenticare la materia” scriveva (e siamo nel 1902!) “Uno scultore deve riassumere le impressioni ricevute e comunicare tutto ciò che ha toccato la sua sensibilità in modo tale che, contemplando la sua opera, si possa percepire interamente l’emozione provata guardando la natura”. Un’emozione che arriva tutta allo spettatore del 2025: densa e destabilizzante. Nel suo essere sempre presente, eterna.
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