TM   Aprile 2024

Nell’obiettivo, eterno presente

Che sia la realtà fermata dallo scatto di un fotoreporter o la composizione costruita ad arte in studio, che sia libera creazione, testimonianza documentale o progetto su commissione, che nasca d’autore o nelle collezioni di un museo entri a distanza di decenni per il suo valore sociale, la fotografia rimane uno dei medium espressivi più potenti. Oggi, come alle origini, con partigiani e detrattori della sua evoluzione tecnologica. In dialogo con Fanny Brülhart, conservatrice e responsabile delle Collezioni di Photo Elysée a Losanna.

di Susanna Cattaneo

Giornalista

A emergere non è che una mano, eppure l’immagine è profondamente umana, carnale. Accovacciata a terra una donna, il volto chino nascosto dal foulard che le avvolge il capo, stringe un sudario che avviluppa un breve corpo infantile. Un’effige archetipica che suggella in un abbraccio intenso quanto impossibile il dolore della perdita. Cronaca e metafora al contempo. Universale nella sua capacità di interpellare ogni spettatore. 

Per definizione la fotografia ferma un istante, risultante del cartesiano intersecarsi di spazio e tempo. Ma la sua potenza è quella di comunicare direttamente alle emozioni, ancor prima di rivelare le proprie coordinate geografiche e storiche: si scoprirà poi che quella raffigurata è Inas Abu Maamar (36 anni), all’obitorio dell’ospedale Nasser, nel sud della Striscia di Gaza dieci giorni dopo lo scoppio del conflitto, mentre culla il corpo dell’amatissima nipote Saly (5 anni), uccisa insieme alla madre e alla sorella da un missile israeliano che ha colpito la loro casa. 

A ‘coglierla’ il fotoreporter palestinese Mohammed Salem, dal 2003 collaboratore di Reuters, che con questo lavoro si è appena aggiudicato per la seconda volta il World Press Photo Contest, dopo averlo già meritato quattordici anni fa, con una fotografia che immortalava allora la pioggia di bombe al fosforo bianco sopra Gaza City durante l’offensiva israeliana contro i militanti di Hamas, a riprova di un conflitto sempiterno. Da 55 anni, questo concorso internazionale, organizzato dall’omonima Fondazione, premia i migliori fotografi professionisti della stampa, fotogiornalisti e fotografi documentaristi.

Una donna palestinese abbraccia il corpo di sua nipote
La fotografia vincitrice del World Press Photo Contest 2024, realizzata dal fotoreporter palestinese Mohammed Salem, il 17 ottobre 2023: “Una donna palestinese abbraccia il corpo di sua nipote”. © Mohammed Salem, Palestine, Reuters.

In un’epoca che di immagini ci inonda – scattate, modificate, taggate, condivise e commentate senza sosta, abusando dell’immediatezza del codice visivo – la fotografia sa rimanere un medium di immensa potenza. «Sin dalla sua invenzione, è stata una tecnica rivoluzionaria. Se da una parte ha permesso alla pittura di liberarsi dal vincolo di rappresentare il reale, dall’altra se ne è però ritrovata a propria volta prigioniera. Una fedeltà che da allora è oggetto del dibattito, fino a oggi con le opportunità e insidie che si profilano con l’Intelligenza artificiale. Storicamente sono stati i pittorialisti i primi a rivendicare, a fine Ottocento, che la fotografia potesse essere una libera creazione dello spirito, mettendo a punto tecniche che permettevano loro una resa vicina a quella del disegno. Se tuttora la fotografia mantiene il suo valore documentale e testimoniale, la sua vocazione creativa è altrettanto vitale», osserva Fanny Brülhart, conservatrice e responsabile delle Collezioni di Photo Elysée a Losanna, fra i più importanti musei interamente dedicati alla disciplina.

A prescindere dalla presenza di una volontà artistica o documentaria, la qualità specifica del medium fotografico è nel suo essere riflesso di un’epoca e di una società, come può accadere anche per produzioni banali e anonime, non ‘d’autore’, che contestualizzate assumono però un loro valore

Fanny Brülhart

Fanny Brülhart

Conservatrice e responsabile delle Collezioni di Photo Elysée a Losanna

Il numero e il successo delle mostre dedicate pressoché a ogni latitudine alla fotografia, tanto da istituzioni espressamente consacrate, quanto da musei di Belle Arti o con altri indirizzi, lo conferma. Grandi maestri del passato e della contemporaneità, fotoreporter e artisti da studio, ma anche i progetti nati nell’ambito della comunicazione visiva di impresa, così come le sperimentazioni che oggi si spingono verso nuove frontiere grazie al contributo dell’Ia. E non solo.

«Bisogna ricordare che la nozione di arte è soggettiva e spesso legata al contesto. Può variare a seconda del momento storico e della cultura di riferimento, perciò anche quando si tratta di fotografia bisogna stare attenti alle gerarchizzazioni che antepongono quella ‘d’autore’ ad altre sue possibili forme. A Photo Elysée cerchiamo di prenderle tutte in considerazione. Infatti, a prescindere dalla presenza di una componente artistica, la qualità specifica del medium fotografico è quella di parlarci di un’epoca, di una società, delle sue abitudini, … persino i fotografi con un approccio incentrato sulla dimensione estetica, pensiamo alla fotografia di moda, indirettamente con le loro immagini sono testimoni di un certo gusto, sono il riflesso del presente, come ogni creazione dello spirito. E questo può accadere anche per produzioni più banali, anonime, nate nella quotidianità», osserva Fanny Brülhart.

Noire et Blanche
Già nell’era analogica Man Ray sperimentava manipolando i fotogrammi. Qui “Noire et Blanche”, 1926. In mostra al Photo Elysée fino al 4 agosto. © Man Ray 2015 Trust / 2024, ProLitteris, Zurich.

Con il suo team, Fanny Brülhart si occupa della conservazione, dell’arricchimento e della valorizzazione attraverso mostre, pubblicazioni, contenuti digitali e altre iniziative del patrimonio di Photo Elysée: oltre 1,2 milioni di fotografie, a partire dai primi scatti degli anni Quaranta dell’Ottocento: fototipi, negativi, stampe ai sali d’argento, fogli a contatto, album, altri processi particolari come calotipi, cianotipi, ferrotipi e ambrotipi. Materiali che il museo sta progressivamente digitalizzando, mentre alle fotografie che nascono in digitale occorre dare un doppio su pellicola, che ancora costituisce uno dei più sicuri supporti di conservazione. Custodisce inoltre numerosi fondi e archivi fotografici completi.

«Fra questi conserviamo anche delle esclusive mondiali, come il più grande complesso di lastre realizzate da Gabriel Lippmann (137 su circa 300 ripartite su tutti i continenti), prodotte grazie alla tecnica interferenziale, per la quale ha ricevuto il premio Nobel di fisica nel 1908. Al contempo, fra le moltissime tecniche appartenenti alla storia della fotografia che collezioniamo, abbiamo acquistato qualche anno fa anche uno strumento di per sé popolare come il Photomaton, ovvero la cabina fotografica self-service, disponibile h24 che, nata per realizzare fototessere per i documenti di identità, ha permesso di democratizzare il processo fotografico rispetto al ritratto eseguito in studio da un professionista. E ben presto proprio grazie alla sua accessibilità ce ne si è appropriati per altri usi, rivelando una dimensione ludica, espressiva e sociale: uno spazio intimo ma anche pubblico, dove scattarsi i canonici quattro ritratti da soli o con amici, improvvisando smorfie e pose», racconta la responsabile delle Collezioni.

Photo Elysée ha colto lo spunto per una delle mostre del suo programma 2024, nel centenario dell’invenzione del Photomaton: l’artista statunitense, residente in Svizzera, Christian Marclay insieme agli studenti in fotografia dell’École cantonale d’art di Losanna (Ecal) ha lavorato sulle oltre duemila stampe che negli scorsi anni visitatori e collaboratori si sono scattati nel Photomaton installato nel museo, creando de facto un’opera collettiva.

A sudden gust of Wind
Jeff Wall, “A sudden gust of Wind (after Hokusai)”, 1993. Alle registiche composizioni del fotografo canadese, la Fondation Beyeler di Riehen ha dedicato una memorabile antologica da poco conclusa. Sopra, © Jeff Wall / Glenstone Museum, Potomac, Maryland.
La torre pendente, Italia, Pisa, 1990
Al Mudec di Milano fino al 30 giugno, appuntamento con 60 immagini di eccentrica quotidianità il britannico Martin Parr, qui con “La torre pendente”, Italia, Pisa, 1990.

«Credo che il motivo del successo di mostre e iniziative dedicate alla fotografia risieda proprio, oltre che nella sua forza comunicativa e nella sua polivalenza espressiva, nell’accessibilità che la contraddistingue: sin da fine Ottocento, con l’arrivo di Kodak sul mercato, è entrata a far parte del quotidiano, rivoluzionando il nostro rapporto con le immagini e oggi ormai con gli smartphone tutti abbiamo in tasca un sofisticato apparecchio fotografico. La sfida per i musei diventa allora quella di accompagnare il pubblico nella comprensione della specificità del medium fotografico e nella contestualizzazione delle tante immagini che ci circondano, a partire dal compito di ricordare alle nuove generazioni come l’immagine non sia solo quella che vedono sugli schermi, ma anche quella che, sviluppata e stampata, diventa tangibile», sottolinea la conservatrice di Photo Elysée.

Alla mostra sul Photomaton si affiancano in questa prima parte della stagione di Photo Elysée, fino al prossimo 4 agosto, due esposizioni di grande rilevanza, attorno a due figure emblematiche e rivoluzionarie: «Il primo è Man Ray, che già negli anni Venti seppe mostrarsi grande sperimentatore delle tecniche analogiche dell’epoca. Manipolava i suoi negativi, realizzava fotocollage e composizioni di fotogrammi, che un po’ pretenziosamente battezzò ‘rayogrammi’, ottenuti senza usare la macchina fotografica, appoggiando direttamente su carta fotosensibile degli oggetti. Una manipolazione che ritroviamo quasi un secolo dopo nella protagonista dell’altra nostra mostra, Cindy Sherman che, con la sua ultima serie, continua a stupire e provocare sui temi della rappresentazione e dell’identità nei media contemporanei. Come d’abitudine modella di sé stessa, questa volta ha eliminato le sue tipiche messe in scena, per focalizzarsi sul volto, interrogandoci sui segni dell’invecchiamento. Ha fotografato parti singole del proprio viso, poi decostruite e ricomposte abbinando una tecnica di incollaggio digitale con fotografie in bianco e nero e a colori, ad altri interventi di trasformazione tradizionali, quali trucco, parrucche e vestiti, creando una serie di ritratti disturbanti», illustra la conservatrice di Photo Elysée. Uno sguardo molto forte e attuale sulla società, quello di Cindy Sherman, che ormai settantenne si conferma pionieristica nell’appropriarsi delle possibilità offerte dalle nuove tecniche, proprio come Man Ray, al di là delle fotografie di moda e dei ritratti con cui si manteneva, vi trovò lo strumento perfetto per lanciarsi nei suoi voli dada e surrealisti.

Tina Modotti, Donna di Tehuantepec
La fotoreporter Tina Modotti (1896- 1942) con la sua opera di denuncia sociale (sopra, Donna di Tehuantepec, 1929), è stat in mostra al Jeu de Paume fino al 12 maggio. © Courtesy Pergentile concessione della Throckmorton Fine Art Gallery, New York.
Oliviero Toscani
La fotografia è grande protagonista dell’offerta museale svizzera: a Zurigo con il provocatorio Oliviero Toscani (accanto, una veduta dell’espozione al Museum für Gestaltung con oltre 500 immagini, fino al 15 settembre). © Foto: Susanne Völlm © ZHdK.

Anche le odierne giovani generazioni di fotografi ribadiscono le capacità di questa forma espressiva con una grande ricchezza di esiti. Tuttora, proprio come alle origini, la fotografia continua a confrontarsi con partigiani e detrattori dell’evoluzione tecnologica. «I timori legati alla mistificazione delle immagini dovranno trovare una soluzione nel quadro della nascente regolamentazione sull’impiego dell’Intelligenza artificiale, ma il rischio permarrà e in quest’ottica fondamentale è il lavoro di istituzioni come la nostra per stimolare nei pubblici la riflessione critica. Ma va ricordato che sin dagli albori la fotografia si è confrontata con il problema della manipolazione: addirittura il primo fotoritocco analogico risale al 1840, quando Hippolyte Bayard si fotografò ironicamente nelle spoglie di un annegato per polemizzare con chi l’aveva defraudato della paternità dell’invenzione della fotografia, che di fatto gli sarebbe spettata in anticipo sul procedimento messo a punto da Daguerre e presentato all’Académie des Sciences di Parigi nel 1839, tagliandolo fuori dai giochi. Da allora, propaganda politica, marketing e mondo dello spettacolo ne fanno uso, da ben prima che venisse inventato Photoshop e arrivassero i deepfake», sottolinea l’esperta di Photo Elysée.

Quanto resta allora di attuale in una storica definizione come quella di Henri Cartier-Bresson secondo cui “fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che esprimono e significano quel fatto”, ovvero “mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore”? «Per quanto riguarda la seconda parte della definizione, credo che sia tuttora pienamente pertinente perché si riferisce all’aspirazione a consacrarsi interamente al proprio lavoro, che è una vocazione condivisa tanto dalla fotografia umanistica alla Cartier-Bresson, nel realismo poetico della sua osservazione del quotidiano, quanto dagli artisti per cui la fotografia è messa in scena, costruzione. La prima parte della citazione suona invece limitante rispetto alle possibilità del medium fotografico, perché ci parla solo della capacità di cogliere l’attimo decisivo di cui va a caccia la fotografia di strada o dei fotoreporter, senza tener conto degli autori che lavorano sulle composizioni, proprio come Cindy Sherman o il canadese Jeff Wall, considerato appunto maestro della staged photography, al quale la Fondation Beyeler ha dedicato un’importante mostra appena terminata», conclude Fanny Brülhart.

Alberto Giacometti dipinge Isaku Yanaihara nel suo studio parigino, 1959
Il Museo d’arte della Svizzera italiana rende omaggio, fino al 21 luglio, a Ernst Scheidegger (1923-2016) con la mostra “Faccia a faccia” che include un’ampia scelta di scatti giovanili inediti, oltre agli iconici ritratti d’artista (sopra, Alberto Giacometti dipinge Isaku Yanaihara nel suo studio parigino, 1959). © 2024 Stiftung Ernst Scheidegger-Archiv, Zürich; works Alberto Giacometti. © Succession Alberto Giacometti / 2024, ProLitteris Zurich.

Con due istituzioni di lungo corso come la Fotostiftung Schweiz a Winterthur, fondata nel 1971 su iniziativa privata di appassionati zurighesi e diventata il centro di competenza nazionale, e il Musée de l’Elysée, nato nel 1985, in Svizzera la fotografia gode di particolare attenzione. Affiancate da altre realtà dedicate come il Photoforum Pasquart a Bienne, il Centre Photographie Genève – Cpg, il Musée suisse de l’appareil photographique, a Vevey o la Haus der Fotografie a Olten, per citare i principali, la disciplina conta anche una ricca serie di Festival (Images a Vevey, Photogenève, l’International Photo Festival Olten, Les Journées photographiques de Bienne, il Fotofestival Lenzbur o il Verzasca Foto Festival, ecc., e anche fiere come Photo Basel, in parallelo ad Artbasel) e gallerie specializzate, oltre a raccogliere interesse da parte dei musei generalisti. A contribuire al dinamismo, anche le scuole di formazione specialistiche (l’Ecal di Losanna, il Centre d’enseignement professionnel de Vevey – Cepv, la Scuola di arti visive di Berna e Bienne, la F+F Schule für Kunst und Design, oppure in Ticino il Centro scolastico per le industrie artistiche – Csia a Lugano).

Alla Svizzera spetta anche il merito di aver inventato un procedimento fotografico di incomparabile qualità come il Cibachrome. Messo a punto negli anni Sessanta per fornire microfilm a colori stabili agli eserciti francese e britannico a Marly, vicino a Friburgo, nell’ex fabbrica Telko e poi prodotto dal gigante della chimica Ciba, insieme a Ilford e Lumière, non ha tardato a conquistare gli artisti e tutto il mondo pubblicitario per i risultati di eccezionale brillantezza, saturazione e durevolezza. A differenza di tutti gli altri processi a colori, la stampa veniva infatti ottenuta direttamente dalla diapositiva – senza passare dal negativo – e il colore era contenuto nella carta (che prese lo stesso nome, prodotta nella storica cartiera del sito, attiva sin dal XV secolo, alle origini della stampa) e non aggiunto in fase di sviluppo. Non ha però retto la concorrenza del digitale, in particolare proprio per l’elevato costo della carta su cui andava realizzato, ed è stato dismesso dal 2013. Il sito di Marly, con i suoi archivi e cimeli, è stato rilevato dall’Associazione Cibachrome, che si impegna a preservarli e promuoverli.

La folla corre al riparo quando suona l’allarme antiaereo Bilbao, Spagna, maggio 1937
Alla coppia di fotoreporter Gerda Taro e Robert Capa, il Centro Italiano per la Fotografia di Torino ha dedicato un’imperdibile esposizione fino allo scorso 2 giugno, accogliendo 46mila visitatori. Robert Capa, “La folla corre al riparo quando suona l’allarme antiaereo Bilbao”, Spagna, maggio 1937. © International Center of Photography The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Gift of Cornell and Edith Capa, 2010.
Gerda Taro, "Miliziani repubblicani, Barcellona, agosto 1936"
Gerda Taro, “Miliziani repubblicani, Barcellona, agosto 1936”. © International Center of Photography The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Gift of Cornell and Edith Capa, 2010.

 

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