Gli Emergenti nell'antichità
Tangibile, immaginifico, idealizzato, concreto, benigno se non anche malvagio; spesso realtà e immaginazione si trovano a metà strada, si ibridano sino a che non è più possibile discernerle. Se oggi nell’era della (dis)informazione il concetto non è troppo strano, laddove non all’ordine del minuto o del byte, nel corso della storia il problema seppur posto in altri termini, e in contesti molto differenti, era altrettanto frequente, in presenza di strumenti di verifica e autenticazione molto più modesti.
È così che quando nel 325 a.C. Alessandro Magno sconfisse Re Poro lungo la valle dell’Indo, e dunque iniziò il viaggio di ritorno verso l’Europa, suggellò l’entrata nell’immaginario collettivo dell’India quale terra di meraviglie, ricchezze, animali feroci, ma soprattutto lontanissima in termini spazio-temporali, scalzando dunque definitivamente la Persia dal ruolo che aveva minacciosamente avuto sino a quel momento. Chiusa la parentesi macedone, con il baricentro di quel mondo che si spostava più a occidente, verso Roma, la nomea rimase nonostante fossero andati completamente persi i rapporti diretti con il subcontinente indiano, intermediati per almeno altri tre secoli dai successori egizi del Tolomeo I Sotere, generale di Alessandro, da cui discenderà poi Cleopatra, sorella per l’appunto di Tolomeo XIII.
Morto Cesare, chiusa l’epoca repubblicana, conquistato l’Egitto, insediatosi stabilmente Augusto al comando per i primi 41 anni di storia imperiale, ecco che i porti del Mar Rosso tornano a essere la porta sul resto del mondo non romano della nuova Roma; la via per raggiungere quello che a tutti gli effetti diventò primo Partner commerciale dell’impero, nonché il fornitore dei beni (di lusso) più desiderati. Come sempre accade in questi casi i numeri sono esemplificativi di determinate grandezze, ma anche soggetti a margini d’incertezza molto grandi, ciononostante si stima che l’interscambio commerciale tra l’India e l’Impero nel I d.C. valesse tra i 100 e i 900 milioni di sesterzi annui, di cui circa il 25% erano tasse doganali riscosse dai funzionari romani in Egitto. A titolo di esempio, il mantenimento delle otto legioni del Reno, insieme al Danubio uno dei limes più pericolosi e dunque meglio sorvegliati, ammontava a 88 milioni di sesterzi ogni anno, e un legionario ne guadagnava circa 800.
Erano oltre 120 le navi che ogni anno facevano la spola tra Egitto e sud dell’India, con un disavanzo commerciale stimato in non meno di 100 milioni negli anni buoni. Una singola spedizione da Muziris ad Alessandria, di cui Plinio conserva doviziosa traccia, inventariava tra gli altri 2.100 kg di avorio, oltre 700 di incenso himalayano, ben 360 di stoffe e tessuti, probabilmente cotone prezioso almeno quanto la seta, per un totale di 150 tonnellate di merci, per un controvalore di 131 talenti, sufficienti a comprare 850 ettari del migliore terreno agricolo dell’Egitto, tra i più costosi del tempo. A testimoniare le cifre in ballo un’ingente quantità di monete d’oro romane in India coniate tra il I e il V secolo, quando i rapporti commerciali diretti vennero meno.
Nonostante dunque quanto si pensi, e con un sospettato ruolo dominante della Cina, di cui non erano ben note le coordinate geografiche, se non un generico ‘molto est, poco nord’, era l’India a essere al contempo una voragine per la bilancia commerciale romana, ma anche a conservare nell’immaginario collettivo l’aura di misteriosità greca necessaria a essere considerata ‘confine del mondo’, pur nella consapevolezza generale che la terra fosse sferica e che dunque tali meraviglie dovessero essere raggiungibili sia navigando verso est che verso ovest, pur non essendoci ancora riusciti.

