I dazi a Roma
Tanto dibattere di dazi che infine giunsero. Tanto tuonò che infine piovve? Forse. Sicuramente molto cambiati da quando si è iniziato a parlarne (poche settimane fa, a ben vedere) ma non per questo meno problematici nella gestione, oltre che nell’applicazione. E come sempre accade i nodi emergono solo dopo aver preso la decisione, anche se, e non è certo questo il caso, dopo attente e ben ponderate analisi. Ammettendo ovviamente che una decisione sia stata davvero presa, e che tale rimanga. Del resto, è noto che all’economia piacciano certezze e prevedibilità, dunque meglio un dazio certo del 50%, che non uno minacciato ma continuatamente ritrattato del 20. Un dettaglio che sembra sfuggire almeno a qualcuno.
Eppure, a voler essere onesti, un cocktail più o meno carico di protezionismo e barriere tariffali è stato alla base delle politiche commerciali dell’ultimo migliaio di anni, con rare e ben circostanziate eccezioni. A risultare straordinaria è stata invece la lunga parentesi degli ultimi decenni, la globalizzazione, che se ha certo fatto molto bene alla popolazione di numerosi Paesi, al tempo stesso ha covato a lungo problemi che infine stanno emergendo, in diversi modi.
L’efficacia dei trasporti, e l’efficienza degli scambi, hanno certo contribuito a un lento ma costante specializzarsi delle economie regionali oltre che nazionali, parcellizzando a potenza le catene di fornitura e le fasi di produzione. In presenza di limiti e vincoli economici e burocratici accettabili a prevalere sono le economie di scala, dunque l’abbassamento del costo di produzione, e lo specializzarsi in micro componenti, analogamente a quanto avvenuto a cavallo dell’anno zero, durante la lunga e altrettanto magica parentesi romana. Perché quindi?
Al netto dei soliti superlativismi tutti latini, alcune delle ragioni sono piuttosto banali. È la prima volta che un’unica entità politica stabile raggiunge dimensioni così significative, toccando popoli e culture tra loro anche molto diverse, al pari di aree geografiche e climatiche distanti. Sotto la supervisione di uno Stato benevolente e particolarmente incline all’iniziativa privata, che dunque si faceva carico di determinare un corpo normativo uniforme, imponendone l’applicazione, si era formato un ‘mercato comune’, o quanto meno una serie di mercati più piccoli ma tra loro coordinati. Ecco dunque che il prezzo del grano o del ferro in Gallia poteva sì risultare diverso rispetto a quello di Roma o Alessandria, ma non in misura così sostanziale come in precedenza. Questo aveva permesso alle imprese di specializzarsi su base regionale, concentrando la produzione di beni specifici nelle regioni più efficienti e produttive, dunque olio in Spagna, e grano in Egitto, ceramiche in Grecia, metallo in Inghilterra…
Oltre a imporre il rispetto della legge, lo Stato romano, repubblicano o imperiale che fosse, si faceva anche garante delle unità di misura, e della conformità delle merci scambiate, naturali o lavorate che fossero. Dunque le anfore di olio o vino erano uniformate secondo rigorosi standard e ispezionate da zelanti funzionari che ne verificavano dimensioni, spessore, peso, contenuto, producendo vere e proprie certificazioni di autenticità da esporre al mercato, o per poter assicurare la spedizione delle merci via mare. Tali controlli venivano eseguiti presso le dogane, solitamente città o porti, dove venivano anche esatti dazi e tributi, a vantaggio della città stessa, della provincia, o dello Stato centrale, secondo tariffari differenziati e precisi.
Generalmente si trattava di tariffe di pochi punti percentuali, tra il 2 e il 5% del valore della merce, uniformate su base provinciale, ma a dipendenza del bene era applicato al valore di mercato, al costo di produzione, al prezzo d’importazione. Ecco dunque che solitamente tutte le merci in entrata o uscita dalla Sicilia erano tassate del 5%, o del 2 in Spagna, e del 2,5% in Gallia, ma l’import di beni di lusso dall’estero, ad esempio dall’Arabia, vantava dazi dal 25 sino a oltre il 100% del prezzo, solitamente esatti alle frontiere esterne del mercato comune, dunque Egitto o Siria. E Roma stessa (l’isola tiberina) era nata quale dogana naturale sul Tevere. Un semplice caso?

