Il recente scontro tra Casa Bianca e Fed sulla politica monetaria è il preludio a una maggiore pressione politica verso le Banche Centrali che, da questo momento, saranno pressate ad assecondare le esigenze di gestione di un debito pubblico sempre più ingombrante. Quello che sta accadendo negli Stati Uniti non è molto diverso da quello che è già accaduto in Giappone: il coordinamento tra Ministero del Tesoro, che gestisce il debito, e la Banca Centrale, che ne può determinare il costo di finanziamento. La sostanziale differenza, però, è che il Giappone non ha una divisa di riserva e si finanzia interamente il proprio debito, quindi una crisi valutaria sullo yen non ha gli stessi effetti di una sul dollaro.
Negli ultimi anni il Giappone ha perseguito un’aggressiva politica reflazionistica mirata a: uscire dalla trappola deflazionistica pluriennale; far partire l’inflazione per svalutare il colossale debito pubblico in termini reali; mantenere comunque un parziale controllo della curva per cercare di avere tassi reali negativi. Tale strategia è stata concordata con il Ministero del Tesoro giapponese e, se avesse avuto i risultati sperati, avrebbe portato il Giappone fuori dalla ‘trappola della liquidità’ e innescato un ciclo virtuoso di crescita e svalutazione del debito in termini reali. La svalutazione dello yen avrebbe importato inflazione, dato che il Giappone importa prodotti alimentari ed energia dall’estero, ma avrebbe facilitato l’export e la crescita dell’economia. In aggiunta a tali effetti, avrebbe innescato carry trades verso il dollaro e aumentato i profitti finanziari su investimenti esteri.
La strategia ha funzionato fino a quando la politica giapponese non ha iniziato a sentire la pressione dell’opinione pubblica sul problema dell’inflazione, che ha ridotto i redditi reali e ha procurato un aumento generalizzato dei prodotti alimentari, impattando dunque sui consumi interni. Gli aumenti salariali non sono stati sufficienti a coprire la perdita di potere d’acquisto. Il patto tra Banca Centrale e Politica si è dunque spezzato. Nelle ultime settimane, sotto forte pressione politica, la BoJ ha annunciato di non essere più in grado di aumentare i tassi d’interesse per gestire l’impennata dell’inflazione al 3,6% a causa del rallentamento economico in corso.
La scadenza di Powell nel 2026, aprirà la strada a un governatore ‘politico’, che verrà scelto in funzione della disponibilità a ‘collaborare’ con il Tesoro sulla definizione del costo del debito pubblico. L’indipendenza della Fed è dunque destinata a ridimensionarsi tanto quanto è già accaduto per la BoJ
Le aste sui titoli di stato hanno iniziato ad andare male e i tassi sul debito a salire in modo incontrollato, generando apprensione sul rifinanziamento di un debito che è al 250% del Pil. La politica reflazionistica del Giappone sta fallendo e questo avrà ripercussioni sul dollaro.
Infatti, poiché la BoJ non può più aumentare i tassi senza causare una recessione, dovrà cercate di contenere l’inflazione importata con uno yen più forte. Lo yen si rafforza contro dollaro perché, da questo momento, le istituzioni giapponesi sono chiamate a intervenire a sottoscrivere le aste del Tesoro, rompendo i carry trades e rimpatriando capitali. La Banca Centrale non può stampare moneta, dato che tale operazione produrrebbe una svalutazione di Yen, e nuova inflazione.
Tutto questo accade mentre negli Stati Uniti la Fed apre un dibattito sulla revisione del target d’inflazione. Si inizia quindi a parlare di ‘target flessibile’, aprendo la strada a una maggiore tolleranza su un’inflazione che stenterà a rientrare, causa dazi. La concomitanza di un fallimento della politica reflazionistica giapponese con l’apertura a un target ‘flessibile’ procurerà una caduta di dollaro nei prossimi mesi sui mercati valutari, questo perché il Giappone necessita di uno yen più forte per frenare l’inflazione, mentre la Fed accetterà più inflazione in America.
Il risultato sarà che i tassi reali sul dollaro scenderanno mentre quelli sullo Yen saliranno. La scadenza del mandato di Powell nel 2026, aprirà la strada a un governatore ‘politico’, che verrà scelto in funzione della disponibilità a ‘collaborare’ con il Tesoro sulla definizione del costo del debito pubblico. L’indipendenza della Fed è dunque destinata a ridimensionarsi tanto quanto è già accaduto per la BoJ, ma per i detentori della divisa di riserva e di asset finanziari americani, questa soluzione non sarà certamente positiva.
Il problema è che gli Stati Uniti non hanno risparmi all’estero da rimpatriare e la tenuta del dollaro è alla base dei flussi di capitale che finanziano un’economia che oggi ha una posizione finanziaria netta con l’estero in debito del 90% del Pil.
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