Debunking è un termine inglese che significa sfatare. Sfatare significa dimostrare l’inconsistenza di una convinzione o una falsa credenza radicata nella massa. Ogni giorno si assiste a una crescita continua di persone che cominciano quell’incredibile cammino d’iniziazione che è la conoscenza di Bitcoin. Di pari passo con la crescita dell’adozione si riscontra un crescente aumento degli scettici secondo cui, per un motivo o un altro, Bitcoin sarebbe destinato a fallire.
Le critiche sono svariate ma per semplicità è meglio ‘sfatare’ le due principali.
La prima, è intrinsecamente tecnologica. Sostiene che Bitcoin e la sua rete non potrebbero sopravvivere a un eventuale crash di internet. Anche qualora internet smettesse di funzionare per una ragione qualsiasi, essendo ormai parte integrante della società, sarebbero in primis economie e Governi a subire i danni maggiori.
Sarebbero quindi i Governi stessi a prodigarsi immediatamente per il ripristino della rete proprio per salvaguardare l’economia. Fatta questa premessa d’obbligo, va comunque detto che Bitcoin potrebbe benissimo continuare a funzionare anche in assenza di internet tramite le reti satellitari. Potrebbe esserci qualche rallentamento nella comunicazione fra i nodi e di conseguenza nella finalizzazione delle transazioni, ma bastano due nodi attivi per far sopravvivere la rete Bitcoin.
La ‘classica’, e più comunemente avanzata, è però la seconda, che ha una connotazione perlopiù ‘politico-finanziaria’. Si può riassumere in: Bitcoin sarà vietato dai Governi perché alternativa non autorizzata alla moneta, la sua proprietà dichiarata illegale e confiscata, e i miners perseguiti. Bitcoin è un protocollo per sua natura ‘peer to peer’ e ormai estremamente decentralizzato. Come tale non si può fermare. Vietare Bitcoin significherebbe imporre la chiusura di tutti i nodi della rete, estremamente improbabile. Di fatto impossibile. Tutti i Governi dovrebbero essere d’accordo, coalizzarsi e ancora non basterebbe. E quanto è immaginabile un’azione coordinata anti-bitcoin concertata tra Biden, Putin, Xi Jinping e Kim Jong-un? La teoria dei giochi si applica alla perfezione a tale ipotesi.
Già in passato gli Stati si sono resi conto di come i tentativi di ostacolare e fermare protocolli ‘peer to peer’, come Bit Torrent o eMule, non abbiano avuto successo. Anche qualora si riuscisse contemporaneamente a obbligare tutti gli internet provider del mondo a bloccare i nodi Bitcoin, tale restrizione potrebbe essere aggirata tramite Vpn o Tor. Dichiararne illegale la proprietà e ipotizzarne la confisca sarebbe ingenuo oltre che utopistico. Bitcoin è rappresentato in astratto dal suo Seed, quella magica sequenza di 24 parole che lo compongono, da cui vengono generate le chiavi private che ne determinano la capacità di disporne e in ultima istanza la proprietà. Questo può semplicemente essere memorizzato senza neanche il bisogno di supporto fisico o di un software. Può attraversare confini in maniera anonima e invisibile.
Cosa possono fare i Governi? Setacciare casa per casa alla ricerca di wallet?
La storia ha dimostrato come le politiche protezionistiche non funzionino. A maggior ragione con una risorsa immateriale difficile da rilevare. Quindi hanno convenienza a trattare tale mercato come qualsiasi altra risorsa, ossia tassandola piuttosto che farla fuggire oltre confine, dove altri Stati sono pronti ad accoglierli. Se ne stanno accorgendo anche gli americani, il cui procrastinare su una normativa crypto chiara e garantista, sta facendo sì che le loro aziende di settore si stiano spostando in Paesi disposti ad abbracciare invece l’innovazione finanziaria, incentivando la stessa applicando politiche competitive e agevolazioni fiscali.
La maggior parte degli Exchanges di Bitcoin operano già seguendo normative Kyc e Aml e i Governi hanno convenienza economica al fiorire di queste aziende piuttosto che combattere mercato nero o gli Exchanges decentralizzati. I miner infine, sono troppo geograficamente distribuiti. Utilizzano vari tipi di energia, tra cui le rinnovabili. Non esiste un’entità che possa controllarli e fermarli tutti. Prova ne è la Cina che nonostante il ‘ban’ al mining, provato più volte, l’ultima nel 2021, non sia assolutamente riuscita a debellarli. Attualmente infatti proprio lì opera ancora un consistente numero di miner, pari al 30% dell’hash rate globale.
© Riproduzione riservata