Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Nonostante le origini del proverbio non siano delle più note, è certamente rappresentativo di molte tendenze che accomunano mercati e settori tra loro molto distanti. L’industria della finanza non costituisce eccezione, e altrettanto frequente consuetudine è che il mercato matura nel tempo degli ‘anticorpi’ per contrastare tendenze che, a detta di clienti e consumatori, sono ‘sfuggite di mano’, cadendo in eccessi. La velocità con cui questo avviene è di solito proporzionale alla magnitudo di tali eccessi.
Il dibattito sulle diverse possibili tipologie di Gestione di un portafoglio d’investimento sono ormai decenni che prosegue, come si conviene la discussione è particolarmente calda e i toni accesi, ma nonostante le proteste la rotta è ormai tracciata, con le preferenze di molti investitori sempre più polarizzate. I dati del resto non mentono: a fine 2023 – un anno dai risultati straordinari – di ripresa (che è poi proseguita) da un 2022 piuttosto tragico, i fondi azionari passivi globali avevano sfondato i 15 trilioni di dollari di AuM, superando per la prima volta quelli gestiti attivamente, ‘fermi’ a 14,3. Un risultato straordinario soprattutto in prospettiva, se si considera che ancora nel 2012, il rapporto era di 3 trilioni a 8,4.
Numeri però tutto considerato trascurabili, e limitati a un’unica seppur importante asset class, da meglio contestualizzarsi rispetto a equilibri aggregati ancora molto distanti. A fronte di un AuM globale atteso a fine 2025 di 145,4 trilioni di dollari, secondo recenti stime di PwC, 87,6 sono ancora gestiti attivamente, contro un ragguardevole 36,6 di passivi, dunque un 60% contro 40.
Alle origini. Se però oggi gli investimenti passivi sono una ‘famiglia’ numerosa e ben diversificata, che gode di una significativa reputazione, come nascono e da dove arrivano è tutta un’altra storia. «Festeggiamo quest’anno i nostri primi cinquant’anni di storia da quando, nel 1975, John Bogle con il ‘Vanguard Experiment’ segnò una pietra miliare nell’evoluzione dell’industria finanziaria. L’idea rivoluzionaria fu di lanciare, solo un anno dopo, il primo fondo d’investimento indicizzato allo S&P 500, aperto anche agli investitori privati, che acquistavano una quota della cooperativa Vanguard, diventandone così anche proprietari. La mission era del resto semplice ma altrettanto insolita: fornire a chiunque fosse interessato le migliori possibilità di successo, dunque prodotti a basso costo, totalmente trasparenti e in assenza di conflitti d’interesse», esordisce così Roger Bootz, responsabile Svizzera e Liechtenstein di Vanguard.
Un obiettivo dunque chiaro sin dal principio, che voleva essere raggiunto senza che si dovesse scendere a compromessi. «Il mercato americano dell’epoca era in mano a pochi gestori attivi, i costi della cui attività erano significativi. Ancor prima delle commissioni, il problema erano i costi e Bogle voleva fornire anche agli investitori retail un’importante esposizione al mercato azionario americano, a basso costo, così da metterli nelle stesse condizioni degli investitori più sofisticati. Seppur pubblicizzata anche fuori, sino agli anni Novanta l’offerta rimase concentrata sul Nord America, riscuotendo un apprezzabile successo, per poi arrivare, in pochi anni, anche nel resto del mondo», prosegue il responsabile.
A distanza di mezzo secolo, la situazione non sembra essere particolarmente cambiata, bene o male che sia. «Lo si definisce in gergo Vanguard effect, è la tendenza ribassista che solitamente si registra a livello di costi di gestione dopo il nostro annuncio di voler entrare in un mercato specifico. Ancora oggi rimane essenzialmente un problema di concorrenza, in questo caso a danno dei piccoli investitori che vedono spesso vanificati i rendimenti dei propri investimenti. Si parla spesso di ‘attivo vs. passivo’, di guerra dei prezzi e scontro, in realtà è soltanto ‘costoso vs. economico’. Quello che noi facciamo è democratizzare l’accesso al mercato; con i nostri prodotti forniamo agli investitori la libertà di poter scegliere a loro esclusivo vantaggio; cosa poi scelgano di fare non dipende da noi», riflette Bootz.
I vantaggi. Altrettanto spesso si finisce con l’agitare i sostanziali effetti negativi che l’eccessivo aumento della quota di mercato dei passivi potrebbe avere. Ma dove sta la verità? «In termini assoluti un prodotto finanziario non può essere né positivo né negativo, dipende dall’uso che se ne fa, ma in ogni caso vedo solo aspetti positivi per gli investitori. Al di là del fatto che la nostra ricerca non è riuscita a evidenziare alcuna correlazione tra aumento dei passivi e ad esempio l’aumento della volatilità o la distorsione dei prezzi, i nostri principali acquirenti in Europa rimangono i professionisti, dunque banche e indipendenti, che li impiegano in fondi o mandati discrezionali. Sarebbe però sbagliato parlare di un ‘mercato europeo’, in quanto ogni Stato fa storia a parte; se la Germania è quello più profondo, in Svizzera sino all’anno scorso non era possibile sottoscrivere piani di risparmio in Etf per la clientela retail. Grazie a un accordo stretto con Swissquote e PostFinance, è ora possibile», evidenzia il responsabile Svizzera e Liechtenstein di Vanguard.
Come spesso accade in Europa, a prevalere su normative spesso comuni sono le peculiarità e le abitudini delle popolazioni. «Questa tipologia di piani di risparmio, che consente di investire piccole somme in maniera ricorrente, senza sopportare costi esorbitanti, è molto recente in Svizzera, ma in Germania vale già 168 miliardi di euro. Questo può essere ricondotto all’estrema sofisticazione che i fondi pensione elvetici, e il sistema previdenziale, hanno già raggiunto, diversamente dagli altri Paesi europei, che ne ha quindi sgonfiato la domanda. Anche a livello di portafoglio, i retail in Svizzera sono timidi rispetto agli Etf, tanto che si stima che, nel 2019, di tutti i patrimoni gestiti nel Paese meno del 27% era allocato su prodotti passivi. Nel 2024 si è giunti al 31% e ci aspettiamo che la dinamica continui anche in futuro, trainata dalla crescente attenzione verso i costi e alla trasparenza, sia da parte degli investitori privati che di quelli professionali», sintetizza Bootz.
Alla radice di tutto una semplice ma intricatissima motivazione: scarsa alfabetizzazione finanziaria. Almeno al di fuori delle ristrette cerchie degli ‘addetti ai lavori’ del settore. «Diversamente dal caso degli americani, per i quali è una preoccupazione fondamentale sin da quando si firma il primo contratto di lavoro, i cittadini del Vecchio Continente si sono interrogati di meno sulla loro pensione. Lo Stato avrebbe garantito e provveduto, come promesso. Solo di recente qualcosa è cambiato. Mediamente gli europei ignorano anche le più basilari nozioni in ambito finanziario, si lasciano ciclicamente prendere dall’entusiasmo, si scottano le dita come negli anni Novanta con il titolo Telekom, o più di recente con Wirecard, ed escono dal mercato. Molti si domandano ora, in ritardo, come mantenere il precedente tenore di vita, dopo essersi fidati troppo delle promesse della Politica; ma il problema rimane l’alfabetizzazione media delle persone», nota il responsabile.
Del resto allorquando non c’è la necessità, non si acuisce l’ingegno, dunque non si sollevano nemmeno domande potenzialmente scomode, o l’interesse. «Negli Stati Uniti le persone devono decidere dove e come investire il proprio fondo pensione, il famigerato piano 401k, e devono farlo per legge. In Europa si può scegliere di non investire nulla, come spesso avviene, lasciando ai sistemi nazionali provvedere per come potranno, in assenza anche di qualunque forma di armonizzazione tra Paesi. Su un orizzonte di trent’anni, il nemico di un investitore sono i costi di gestione, a prescindere dalle difficoltà di trovare un gestore attivo che riesca a sovraperformare sistematicamente il mercato. Ma qual è il costo medio di gestione del proprio portafoglio? Lo abbiamo chiesto a cittadini italiani, inglesi e tedeschi. Se nel Regno Unito includendo la consulenza finanziaria, i costi vengono stimati a circa 180 punti base, più di quanto siano in realtà (165 bp), in Germania, si stimava un costo massimo di 161 bp, anche se in realtà era pari a 235 bp. Un dato che dice molto di quanto le persone siano informate», rileva Bootz.
Perché. Fermo restando che il costo non sia comunque tutto, l’attenzione si sposta anche sui prodotti specifici, in un mercato globale che conta ormai oltre 10mila Etf quotati. «Il nostro obiettivo è fornire solidi tasselli per allestire portafogli d’investimento competitivi e poco costosi, in asset class consolidate e sicure. Dei 2800 Etf quotati alla Six, solo 43 sono nostri, va dunque prestata attenzione anche al singolo prodotto, in cosa s’investa e come. Il costo fa molto, ma non è tutto, per quanto il mondo Etf abbia già dimostrato molto sin dai primi mesi dell’emergenza pandemica, continuando a scambiare regolarmente», sottolinea il responsabile.
Ma qual è il ruolo che ricopre la Svizzera all’interno della strategia di un attore così importante del mercato? «Abbiamo aperto la sede di Zurigo nel 2008 per servire principalmente gli istituzionali, mentre è dal 2020 che abbiamo deciso di riorientare la strategia, includendo anche gli investitori finali, e potenziando di conseguenza l’offerta di Etf. La Svizzera rimane un mercato importante e appetibile per molti, le banche elvetiche hanno 9,2 trilioni di dollari di asset in custodia, di cui oltre 2,1 di crossborder. Istituti e gestori indipendenti guardano con interesse ai nostri prodotti, per inglobarli in un’offerta competitiva per i loro clienti, e stiamo lavorando per migliorare ulteriormente tali sinergie», nota il manager.
Al tempo stesso, perché proprio Vanguard? Cosa fa la differenza? «Ho alle spalle ormai molte esperienze nell’industria, e ho sempre amato il mio lavoro, ma ho accettato un paio d’anni fa questa nuova sfida per le peculiarità della nostra società, che la rendono unica. Non abbiamo azionisti a cui rispondere, siamo dunque privi nella maniera più assoluta di conflitti d’interesse, oltre che trasparenti in tutto quello che facciamo; siamo una cooperativa con una mission altrettanto particolare, e non lavoriamo secondo obiettivi trimestrali. Dalla nostra abbiamo il tempo, e i numeri ci stanno dando ragione; Vanguard non offre soltanto prodotti d’investimento per il lungo periodo, è la società stessa a vivere e crescere guardando avanti, come avrebbe voluto il suo fondatore», conclude Roger Bootz.
Che si debba ragionare sempre e comunque di lungo periodo è una vecchia storia, ormai un po’ sbiadita, soprattutto se a erodere molti sforzi si trovano costi di gestione importanti. La questione assume però un altro significato se le commissioni si riducono a pochi punti base.
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