TM   Febbraio 2024

Relazioni che si deteriorano

La competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina ha ricadute crescenti di cui l’investitore azionario deve essere consapevole. Restano improbabili grosse sorprese. Un’analisi di Giovanni Rickenbach, Responsabile Strategia di Pkb.

di Giovanni Rickenbach

Responsabile Strategia di Pkb

Da completare entro il 2049, la strategia del Grande rinnovamento della nazione cinese prevede la revisione dell’ordine internazionale in senso multipolare. Pechino afferma di prepararsi a un clima internazionale più turbolento. Gli Stati Uniti preferiscono mantenere il sistema unipolare nel quale sono egemoni. Da qui la politica di contenimento cinese.

L’Europa partecipa a questa competizione quale alleato degli Stati Uniti. Ucraina, Medio Oriente, Taiwan e colpi di stato in Africa ed elezioni problematiche sono sintomi di stress del sistema unipolare. Per le imprese occidentali che esportano o producono in Cina e per l’investitore azionario, il grande Paese asiatico diventa quindi di preoccupazione.

La rivalità Usa-Cina rappresenta un cambio di regime duraturo rispetto alla globalizzazione, ma non esclude flussi commerciali e investimenti diretti. Risorse e capacità sono infatti inegualmente distribuite e creano dipendenze. La Cina soffre ad esempio di dipendenza alimentare ed energetica, e importa tecnologia. Il campo occidentale importa dalla Cina componenti industriali e materiali, tra cui le strategiche terre rare. L’autarchia non è una soluzione, anche nel lungo periodo. La guerra economica deve infatti essere praticata con misura, perché un’escalation avrebbe conseguenze negative per tutti, sul livello dell’attività economica e sulla crescita nel lungo periodo.

La competizione geo-strategica prende numerose vesti: barriere tariffarie e non, sovvenzioni, embarghi, sanzioni, controlli ai capitali, politiche industriali, diplomazia economica, azioni giudiziarie… Una varietà che rende necessaria un’analisi caso per caso. Due esempi. Lo sviluppo economico non è mai uniforme. Nel campo dei semiconduttori e della loro produzione, la Cina mostra un marcato ritardo. Gli Stati Uniti hanno proibito l’esportazione verso la Cina di quelli di ultima generazione e dei macchinari per produrli. I cinesi restano grossi importatori di chip delle generazioni precedenti e lo resteranno. Le vendite in Cina dei produttori americani, europei e di Taiwan non sono a prima vista in pericolo e le loro valutazioni azionarie non dovrebbero quindi soffrirne. Un’estensione dell’embargo statunitense cambierebbe però la situazione.

La transizione energetica è l’occasione per la Cina di ridurre la dipendenza dalle importazioni di energia fossile. La leadership cinese nelle auto elettriche mette in difficoltà i produttori europei presenti in Cina, in particolare quelli tedeschi, le cui azioni trattano ormai a valutazioni molto depresse. Solo gli elevati dividendi le rendono un minimo interessanti. Le azioni di società americane ed europee esposte significativamente alla Cina presentano quindi un rischio accresciuto di cui bisogna essere consapevoli. Quando già scontato, è giudizioso non contare sul ritorno delle valutazioni ai livelli più alti. Quando non lo è, bisogna avere buone ragioni per ritenere che anche in futuro non saranno penalizzate.

La visione d’insieme è rassicurante. L’esposizione alla Cina in termini di fatturato delle società quotate europee e americane non supera il 10%. È limitata, ma mostra differenze. Riguarda i settori implicati nei flussi commerciali: tecnologia, prodotti industriali, materiali e beni di consumo durevoli. È poco rilevante nei servizi. Escluse un’escalation protezionistica o un conflitto aperto, il raffreddamento crescente delle relazioni Occidente-Cina costituirà piuttosto un motivo di disturbo temporaneo per i mercati azionari, non un fattore suscettibile di provocare grosse fratture durevoli o una depressione permanente dei prezzi.

© Riproduzione riservata