Quello dell’Arredo, e più in generale del Design, è uno dei tre alfieri che fanno del Made in Italy quello per cui è noto in tutto il mondo, ben oltre i confini del Vecchio Continente. A questo vanno effettivamente aggiunti l’enogastronomia e la moda, ma nonostante non rappresentino certo una quota troppo significativa del giro d’affari, e ancora più in generale dell’export tricolore, è indubbio ne siano la parte mediaticamente più esposta. Ciò che spesso passa sotto traccia è però cosa in concreto siano davvero: una potenza economica nascosta.
La sola filiera del Legno – Arredo, secondo i consuntivi elaborati dal Centro studi di Federlegno, può infatti contare oltre 66mila imprese e quasi 300mila addetti, con un fatturato annuo complessivo di 52,7 miliardi di euro, in calo del 7,8% rispetto all’anno precedente, un 2022 in cui era stato toccato il record assoluto. Sempre stando alle semplici cifre 2023, il saldo commerciale netto con l’estero è stato superiore agli 8 miliardi di euro, in crescita del 16,7% sull’anno, con un export che ha sfiorato quota 20 miliardi. In rapporto al manifatturiero nazionale, la filiera del Legno – Arredo rappresenta un modesto 4,2% del fatturato complessivo, ma conta per il 14,8% delle imprese e l’8% degli addetti. Numeri che ne ben fotografano la rilevanza strategica.
«Il rallentamento registrato l’anno scorso può essere a tutti gli effetti definito come fisiologico rispetto alla crescita a doppia cifra degli anni precedenti. Venivamo da un 2021 e un 2022 eccezionali, in cui in primis la pandemia ha contribuito in misura sostanziale a valorizzare l’idea dello ‘stare a casa’ ma a farlo nel migliore dei modi possibili. I campioni mondiali dell’Arredo sono tutti brand italiani, i cui prodotti sono per definizione top di gamma, frutto di una tradizione che affonda le sue radici nel secolo scorso. Inutile dire che non tutti gli anni si riarreda casa, o si cambia la cucina, dunque era inevitabile che presto o tardi si registrasse un calo del fatturato. A essere importante è che nonostante tutto le cifre siano comunque ancora superiori rispetto ai livelli del 2019», rileva Marco Sabetta, Direttore generale del Salone del Mobile di Milano dal 2008.
Se però lo stato di salute di una filiera non lo fanno solo le aride cifre di bilancio, sono anche molti altri i segnali che spingono a crederlo, e che consolidano il ruolo di Milano quale capitale mondiale dell’Arredo. «L’ultimo quindicennio è stato particolarmente ricco di sfide, e se l’intero mondo è cambiato diverse volte, anche il nostro settore ha dovuto adeguarsi, a partire dal Salone del Mobile. Abbiamo voluto scommettere su una sua evoluzione, nella definizione di un nuovo format, che fosse sì ancora una fiera specialistica di settore, conservando dunque la componente commerciale, ma al tempo stesso che divenisse a tutti gli effetti un evento di comunicazione della città di Milano, polo aggregativo capace di accogliere centinaia di migliaia di interessati dal resto del mondo. Penso di poter dire che i numeri ci stiano dando ragione», prosegue il responsabile.
Nonostante il processo sia iniziato ben prima del 2015, e abbia richiesto non pochi sforzi, la strada fatta rimane delle più notevoli, rispetto a una manifestazione che di storia dietro le spalle ne ha sicuramente ormai molta. «Si è chiusa da qualche settimana la 62esima edizione del Salone, la più grande e riuscita di sempre, con oltre 370mila presenze complessive (tra cui molti giovani e studenti su cui stiamo investendo molte energie), 1950 espositori da 35 Paesi, e 175mila mq di superfici espositive. A titolo d’esempio basti pensare che nel 1961, la prima edizione, gli espositori erano 328 con una superficie disponibile di 11.680 mq. È un progetto che arriva da lontano, si è trattato infatti di ripensare quasi del tutto la formula, arrivando preparati a Expo 2015 cui ‘idealmente’ l’abbiamo consegnata. Ci è stata restituita e da allora stiamo affinando i dettagli, anno su anno, cercando di migliorare e aggiungere sempre qualcosa rispetto all’edizione precedente. Se il Salone è cambiato, anche Milano dopo Expo ha completamente voltato pagina, e oggi ‘corre’ insieme alle grandi capitali globali», precisa Sabetta.
Se la manifestazione si concentra nei pochi giorni di una settimana di primavera – quest’anno dal 16 al 21 aprile -, i preparativi per renderla possibile durano quasi dodici mesi, e nel corso del tempo sono a loro volta molto cambiati. «È dall’anno scorso che abbiamo iniziato a ‘raccontare’ quello che facciamo a Milano girando il mondo durante i mesi che precedono il Salone, in quelli che sono a tutti gli effetti dei ‘rock tour’. L’idea è abbastanza semplice: raccontiamo cos’è il Salone, e lo facciamo nelle grandi metropoli del mondo rivolgendoci a stampa, specializzata e non, architetti, designer diffondendo quella che definisco ‘cultura del bello’, con altri grandi architetti e designer quali ambassador, invitando tutti a raggiungerci a Milano. Alimentiamo la community, accendiamo l’interesse, seminando per il Salone che verrà di lì a pochi mesi. È un’attività a tempo pieno, si è partiti da Shanghai a novembre e si è chiuso il tour in Giappone e Sud Africa in marzo, toccando le grandi città asiatiche, europee e del Nord America. La forte crescita degli arrivi, la cosa più importante di una manifestazione, a patto di non scendere a compromessi con la qualità che dobbiamo mantenere, ci sta dando ragione», mette in evidenza il Direttore generale.
Ciò che garantisce la qualità del design italiano è la sua filiera, fatta di migliaia di piccole e medie imprese, i cui fatturati solo in rarissimi casi superano i 100 milioni di euro. Determinate lavorazioni continuano a essere eseguite solo in Italia, grazie all’arte del ‘saper fare’ che nel corso degli anni è qui germogliata
Quella di Milano è del resto una posizione difficilmente scalzabile, al pari di quello che rappresenta Ginevra per l’orologiero, ma è comunque sempre opportuno non ‘dormire sugli allori’, restando al passo degli sviluppi del mercato. «Ciò che garantisce la qualità del design italiano è la sua filiera, fatta di migliaia di piccole e medie imprese, i cui fatturati solo in rarissimi casi superano i 100 milioni di euro. Per quanto sia un settore comunque frizzante, e non mancano operazioni di finanza straordinaria, determinate lavorazioni continuano a essere eseguite solo in Italia, grazie all’arte del ‘saper fare’ che nel corso degli anni è qui germogliata. Si tratta di un vero e proprio patrimonio culturale che dovrebbe essere difeso e tutelato con convinzione, coltivato sapientemente e in maniera continuativa nel tempo, anche grazie a percorsi di studio e specializzazione ad hoc che allo stato attuale ancora mancano. A rendere tutto possibile, dalla progettazione alla consegna di un singolo pezzo di Design, collaborano decine di professioni diverse, il cui ricambio negli anni deve essere assicurato, guardando alle nuove generazioni, ma anche e soprattutto formandole», conclude Marco Sabetta, Direttore generale di Salone.
Quella dell’Arredo, e più in generale del Design, è dunque sì un’anima importante del Made in Italy, ma anche un bene fragile e delicato che dovrebbe essere meglio tutelato. In un Paese in cui il bello non manca, c’è il rischio di non dargli la giusta attenzione che meriterebbe?
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