Il 2024 si avvia a conclusione su ali dorate, regalando per il momento agli investitori risultati straordinari soprattutto in tre ambiti.
In primis, il mercato azionario americano, la cui performance Ytd (S&P +25%) si iscrive tra le 20 migliori degli ultimi 100 anni, mentre quella cumulata nel biennio, superiore al +50%, è al sesto posto di sempre. Il lascito è un multiplo stimato a 12 mesi molto ambizioso (P/E 22x), che nell’ultimo mezzo secolo è stato superato solo due volte: prima della bolla del 2000, e durante la pandemia; anche gli utili sottostanti sono ambiziosi, dato che nel 2024 le frequenti revisioni negative nette hanno spostato una parte degli Eps attesi al 2025 (con una crescita stimata del +14%), e che la qualità di questi utili è diventata sempre più discutibile, come testimoniato dal gap esponenziale tra la crescita stimata degli Eps e quella dei flussi di cassa netti per l’azionista.
In secundis, il credito americano, con spread a livelli non più osservati dopo la crisi del 2008, che in termini assoluti si collocano a cortissima distanza dai minimi di sempre. In particolare, il mercato Hy si trova a meno di 20 punti base dal minimo assoluto toccato nel giugno del 2007 (243 bp), in costanza di rating medio, mentre il mercato Ig si trova al di sotto persino dei livelli di quel periodo, e a soli 10 bp dai minimi assoluti toccati negli anni Novanta, avendo oggi però una qualità media creditizia inferiore di un notch in entrambi i casi. Il mercato Hy americano prezza un calo drastico del tasso di fallimento stimato a 12 mesi all’1%, assumendo valori standard di recupero medio e di premio di liquidità, rispettivamente pari al 40% e 200 bp. Ciò richiede un’economia statunitense molto più che resiliente sul piano fondamentale, o un quadro tecnico eccezionalmente favorevole come quello del 2024, capace di comprimere gli spread notevolmente al di sotto del loro fair value grazie alla presenza sempre più pervasiva di investitori focalizzati sui rendimenti complessivi e non sugli spread.
In tertiis, gli antagonisti naturali (l’oro) e sintetici (le criptovalute) delle fiat currency. L’esplosione del bitcoin (>120% Ytd) potrebbe essere derubricata come l’ennesima ondata speculativa, poi potenziata dalla vittoria di Trump; l’apprezzamento dell’oro (>30%), che ha subito una battuta d’arresto dopo le elezioni, è stato invece fortemente supportato dall’establishment anti-americano (Banche Centrali emergenti), trovando un solo riscontro di magnitudo simile dagli anni Ottanta a oggi (nel 2007). Tuttavia, tra il 1974 e la fine del 2001 l’oro era rimasto intrappolato per gran parte del tempo in un range tra i 300 e i 400 dollari, mentre nei 23 anni successivi ha incrementato il proprio valore di 8 volte e di circa 2400 dollari, di cui 1700 soltanto negli ultimi 8 anni, e per la maggior parte del tempo con l’inflazione sotto controllo.
Fuori da questi tre ambiti, i mercati nel 2024 hanno restituito ritorni interessanti, lontani dalle valutazioni più brillanti del passato, e perdendo notevole terreno contro gli omologhi americani, in modo particolare dopo le elezioni, e il ritorno dell’eccezionalismo americano.
Il consensus 2025 sembra improntato a un plebiscito a favore delle attività rischiose, in particolare americane, e del Trump 2.0, e da una crescente cautela invece per quanto riguarda invece il resto del mondo e la traiettoria generale dei tassi di interesse. È probabilmente nel radicamento di questo eccezionalismo, e nel carattere sempre più divisivo dello sviluppo economico a livello globale, che è possibile ravvisare la ragione principale del successo delle valute antagoniste, unica reale alternativa al ruolo egemonico del dollaro. Riguardo invece al suddetto ottimismo assoluto e relativo, la sua fondatezza dipenderà da tre fattori chiave:
– Il timing e la esatta sequenza delle misure annunciate: la Trumponomics 2.0 nel suo complesso è una ricetta tossica per il resto del mondo, e per gli Stati Uniti stessi. La combinazione tra tagli fiscali da una parte, e dazi e lotta all’immigrazione dall’altra, avrà implicazioni finali regressive e disinflazionistiche per la crescita: i dazi deprimono il commercio mondiale e colpiscono i consumatori senza distinzione, mentre i tagli fiscali sono selettivi e destinati a premiare fasce di reddito che hanno bassa elasticità di domanda relativa.
L’eventuale riduzione del flusso di immigrati priverebbe l’economia americana del suo unico motore di espansione della forza lavoro, riducendone il potenziale. L’inflazione verrebbe scagliata al rialzo negli anni di applicazione delle misure, ma poi la crescita più depressa eserciterebbe pressioni disinflazionistiche, come il mercato sembra anticipare guardando alla divergenza tra la Break-even inflation a 10 anni e il 5 anni 5 anni forward.
Uno stimolo positivo alla crescita nel 2025 potrebbe dunque arrivare solo da un mismatch temporale, con tagli fiscali varati in netto anticipo, e con un approccio incrementale alle tariffe che ne scarichi il peso soprattutto nel 2026. Inoltre, nessuno degli obiettivi dichiarati di Trump verrebbe raggiunto: la riduzione del disavanzo commerciale non è compatibile con un incremento del deficit federale; la creazione dei posti di lavoro nel settore manifatturiero non è credibile; la propensione ad investire delle aziende non è cambiata nel Trump 1.0 con misure simili; persino l’intento punitivo nei confronti della Cina potrebbe configurarsi come una vittoria di Pirro, dato che i cinesi da tempo stanno guardando agli Emergenti.
– Il mercato del lavoro americano: resta il principale fattore dirimente per la crescita, dato che il suo rallentamento controllato potrebbe registrare un cambio di marcia in concomitanza con il maggiore bilanciamento tra posizioni lavorative aperte e disoccupati. Le richieste continuative di sussidi continuano a crescere a ritmo basso ma costante. I margini di profitto sono sui massimi, ed una loro eventuale contrazione indotta dalle tariffe e dalla correlata crescita dei costi potrebbe spingere in alto i licenziamenti, imponendo una frenata ai consumi.
– Il quadro geopolitico: una risoluzione pacifica dei conflitti in corso potrebbe ridurre i rischi che gravano su determinate aree emergenti e generare esternalità positive sul fronte della ricostruzione, come il caso dell’Europa in Ucraina.
La combinazione tra un posizionamento plebiscitario e valutazioni record degli asset rischiosi americani deve invitare ad una notevole prudenza. La cautela su inflazione e tassi ha un fondamento di medio termine esclusivamente ‘meccanico’, ma è sicuramente meglio privilegiare posizioni di curva a posizioni spiccatamente direzionali. I mercati azionari europei scontano l’andamento asfittico degli utili e la crescente frequenza dei profit warning, con improbabili miglioramenti.
Il 2025 offrirà un punto di entrata molto attraente sulle valute emergenti a causa dell’iniziale proseguimento del Trump trade, che troverà una legittimazione fondamentale nel rallentamento economico globale che seguirà nel 2026 alla graduale imposizione delle tariffe. Gli azionari emergenti hanno subito un notevole derating relativo contro gli Usa, ma in termini assoluti non sono a buon mercato se si esclude la Cina.
In ambito creditizio, ha senso continuare a privilegiare il mercato Hy scandinavo, sostenuto da un primario vibrante e sempre più internazionale, e da un profilo rischio-rendimento più bilanciato, e l’Hy europeo che, in un eventuale proseguimento del trend globale di contrazione dei premi al rischio, presenta margini di manovra storicamente più interessanti rispetto agli americani e un minor rischio di tasso. Nel complesso però, dato che gli spread sono storicamente molto ristretti, abbiamo usato la forza del mercato negli ultimi mesi per incrementare in modo deciso le protezioni derivate di credito, dato il costo storicamente appetibile di strumenti di protezione convessi.
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