TM   Ottobre 2023

L’eterna promessa

Le aspettative riposte nei mercati emergenti dagli investitori si rivelano ciclicalmente esagerate, con una cronica assenza di risultati sbalorditivi. La situazione sta però migliorando. L’analisi di Matteo Ramenghi, Cio di Ubs Wealth Management Italia.

Matteo Ramenghi

di Matteo Ramenghi

Cio di Ubs Wealth Management Italia

Le economie emergenti presentano un forte potenziale: tante registrano una popolazione giovane e in forte aumento, altre sono ricche di materie prime, alcune hanno intrapreso percorsi di riforma e sviluppo. In effetti, secondo un’analisi di World Economics le economie emergenti hanno prodotto oltre l’80% della crescita mondiale degli ultimi 10 anni. A ben vedere, però, la parte del leone l’ha fatta l’Asia con oltre il 60%, di cui metà ascrivibile alla Cina e un quarto all’India. Oltre a fattori quali la demografia e la disponibilità di materie prime, per uno sviluppo sostenibile occorrono un sistema di regole che permetta l’affermazione di imprese competitive e la formazione di una classe media che possa alimentare la domanda interna nel tempo.

Anche in borsa le aspettative riguardo ai mercati emergenti sono quasi sempre elevate, ma molto spesso sono state disattese. Dalla crisi del 2008 in poi, l’indice Msci Emerging Markets (espresso in dollari) ha sottoperformato l’indice globale (Msci Acwi) di oltre il 120%. È andata meglio proprio alle citate Cina e India, magra consolazione avendo comunque sottoperformato rispettivamente di oltre il 60% e il 30%. Analizzando i numeri si capisce facilmente la ragione di questo andamento: nell’ultimo decennio la crescita media degli utili delle società quotate nei mercati emergenti è stata negativa dello 0,4%, dato che si confronta con un +7% per quelle statunitensi (indice S&P 500). In altri termini, l’espansione economica non si è tradotta in un incremento degli utili delle società quotate, che anzi sono rimasti al palo.

Sicuramente molti fattori esterni hanno inciso sulla redditività delle società dei Paesi emergenti, come la situazione geopolitica e le fasi alterne delle materie prime, ma i due fattori numericamente determinanti sono stati la svalutazione delle valute locali rispetto al dollaro americano e i copiosi aumenti di capitale intervenuti tramite l’emissione di nuove azioni, che nella maggior parte dei casi hanno comportato una decisa diluizione per gli azionisti senza apportare loro particolari benefici. Mediamente le società quotate dei mercati emergenti hanno incrementato il numero di azioni del 6% l’anno nell’ultimo decennio e la Cina addirittura del 10%. Gli utili per azione sono stati diluiti di pari passo. Per fare un confronto, l’emissione di nuove azioni è stata solo dello 0,6% l’anno in Europa e addirittura negativa negli Stati Uniti, dove è invece molto più comune il riacquisto di azioni proprie per aumentare conseguentemente la remunerazione degli azionisti.

Aumentare il capitale emettendo nuove azioni non è necessariamente un elemento negativo soprattutto se serve a migliorare le prospettive, ad esempio per penetrare nuovi mercati o per realizzare un’acquisizione, ma questo deve tradursi almeno nel medio termine in maggiori utili. Il management delle società dovrebbe avere infatti la responsabilità di proteggere gli interessi degli azionisti, oltre a quelli degli altri stakeholder. Qui entra in gioco la qualità della Governance delle società e, probabilmente, è proprio questo che spiega una parte importante della sottoperformance dei mercati emergenti. Se si guarda ancora più lontano nel passato, la diluizione registrata negli ultimi dieci anni è comunque inferiore a quella del decennio precedente (2003-2012), quindi almeno in prospettiva, ci sono stati dei miglioramenti soprattutto in alcuni Paesi come Taiwan, Cina, Brasile e Corea del Sud.

Un decennio movimentato

Andamento degli Eps dell'indice Msci dei mercati emergenti

L’altro elemento da considerare sono le valute locali, perché spesso hanno subito svalutazioni importanti rispetto al dollaro: mediamente di quasi il 2% l’anno, storicamente molto di più in America Latina e in Africa. Il dollaro, infatti, non è solo la valuta di riferimento, ma spesso è anche quella nella quale molti di questi Paesi e di queste società si finanziano; un dollaro più forte può quindi incidere significativamente sui bilanci e sui costi di finanziamento.

Come posizionarsi dunque sui mercati emergenti? Per tutte le ragioni discusse sinora, innanzitutto occorre ricordare che spesso hanno una rischiosità maggiore rispetto ai mercati avanzati e l’allocazione strategica va tarata e ben ponderata di conseguenza. Ma esistono fasi più positive e, probabilmente, il prossimo anno potrebbe vedere un contesto più favorevole in previsione di un indebolimento del dollaro, a fronte di una politica monetaria più accomodante rispetto agli ultimi due anni e dell’elevato deficit del bilancio federale che difficilmente migliorerà nell’anno precedente le elezioni presidenziali.

Inoltre, l’indice Msci Emerging Markets tratta a meno di 12x gli utili attesi nel prossimo anno, il che significa uno sconto di quasi il 40% rispetto ai titoli della borsa statunitense. Ma se si prende in considerazione il multiplo del patrimonio netto, lo sconto sale addirittura al 64%. Questo sconto probabilmente non verrà mai azzerato, ma basterebbe una modesta riduzione per un recupero dei mercati emergenti.

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