Il segreto del successo delle nazioni di dimensioni ridotte? Risiede nella loro apertura commerciale, nella stabilità economica e negli assetti interni. Lo confermano i diversi equilibri e destini di tre piccoli Paesi come Grecia (in foto Atene), Svizzera e Paesi Bassi.
In un mondo sempre più competitivo e multipolare, gli Stati piccoli sono svantaggiati rispetto a quelli grandi oppure riescono a trarre vantaggio dai loro limiti dimensionali? Altrimenti detto: esiste una correlazione univoca fra taglia e successo economico? Lungi dal voler sciogliere il dilemma stabilendo un banale rapporto di causalità, l’interrogativo finisce per rivelare un apparente paradosso: molti Paesi piccoli ottengono risultati migliori dei grandi in termini di resilienza proprio perché sono più vulnerabili. Alla conclusione arriva il recente studio che il Credit Suisse Research Institute (Csri) dedica alle Small Countries, terzo della serie inaugurata nel 2014. Dopo aver smentito nella prima edizione il luogo comune per cui i Paesi piccoli faticherebbero a capitalizzare i loro limiti dimensionali, e successivamente, aver illustrato come fungano da indicatori anticipatori delle tendenze dei più grandi, nella terza puntata – che amplia il campione di analisi da 58 ai 193 Stati membri dell’Onu – si è posto la sfida di analizzare le variabili di successo economico tra Paesi di diverse dimensioni.
Il 60% dei Paesi ha dimensioni ridotte
Piccoli, ma economicamente forti
Un soggetto che si impone all’attenzione non solo perché la Svizzera ne è cristallino e virtuoso esempio, ma considerando come il loro numero sia esponenzialmente aumentato dal secondo dopoguerra. Se allora si sfiorava la novantina di Stati sovrani, si è oggi passati ai 195 Paesi riconosciuti dall’Onu. Di conseguenza si sono ridotte le dimensioni medie dei territori nazionali. Quasi i quattro quinti dei piccoli Stati si sono formati negli ultimi 70 anni, con un’impennata a inizio ’90 in coincidenza con la disgregazione di Jugoslavia, Unione Sovietica e Cecoslovacchia, e tuttora sono sul tavolo le rivendicazioni di autonomia regionale di Scozia, Catalogna, Fiandre, Paesi Baschi o Québec. Uno sviluppo accompagnato dalla creazione di mercati aperti e dal libero scambio, rispetto ai quali la divisione del lavoro è diventata un pilastro fondamentale dell’ordine internazionale, alimentando il motore della globalizzazione.
Nonostante le diseconomie di scala, sono molti i piccoli Paesi ad aver dimostrato di poter raggiungere la prosperità economica e spesso di eccellere in aree come la competitività o la metrica del reddito. Ad esempio, tre piccoli Paesi – Danimarca, Svizzera e Singapore – occupano il podio della classifica di competitività dell’Imd Business School del 2022. E ben 15 dei primi 20 posti dell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che combina reddito pro capite, istruzione e salute, sono presidiati da Paesi piccoli. Non solo tendono a essere più prosperi, ma si sono anche sviluppati molto bene: tra il 1987 e il 2021, secondo la Banca Mondiale, la metà è riuscita a passare a un gruppo di reddito superiore (contro il 38% dei Paesi di medie dimensioni e il 39% dei grandi).
Apertura economica cruciale per la prosperità
Il Credit Suisse Research Institute individua nell’apertura economica il segreto del successo che consente non solo di raggiungere la prosperità, ma anche di ottenere risultati economici superiori alla media e di essere in grado di resistere, compensando l’handicap delle dimensioni. In un mondo completamente autosufficiente, i Paesi piccoli avrebbero inevitabilmente mercati più piccoli. Ma, nonostante i confini nazionali continuino a rappresentare delle barriere al commercio, l’evidenza empirica dimostra che le dimensioni dei Paesi non ostacolano lo sviluppo economico fintantoché le frontiere sono aperte agli scambi internazionali. In particolare, la correlazione positiva tra apertura commerciale e Pil pro capite è molto più pronunciata per i Paesi più piccoli che per quelli più grandi. Integrandosi nell’economia globale, possono infatti attenuare le diseconomie di scala.
Allo stesso tempo, questa permeabilità comporta una dipendenza, richiedendo particolare attenzione agli shock che potrebbero minacciare il benessere economico interno. Un’attenzione che deve tradursi non solo in monitoraggio ma in politiche economiche sane e strategie per promuovere la solidità e la resilienza economica anche agli eventi meno prevedibili, come la cronaca di questi ultimi anni ribadisce. Inoltre l’apertura economica spesso si accompagna a un maggior grado di specializzazione, anch’esso a doppio taglio: da un lato ne promuove la prosperità, ma dall’altro aumenta l’esposizione ai contraccolpi, come le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime.
La Svizzera è fortemente esposta agli shock internazionali… ma sa affrontarli, adattarsi e assorbirli
Per comprendere meglio i fattori di successo dei piccoli Paesi, il Csri ha sviluppato due strumenti: l’indicatore di vulnerabilità economica (Evi) che misura l’esposizione di un’economia agli shock, e l’Indicatore di resilienza economica (Eri) che fornisce un quadro di riferimento per valutare la solidità economica di un Paese nell’affrontare tali shock, nonché la disponibilità ad adattarsi a circostanze economiche mutevoli.
Per costruire l’indicatore di vulnerabilità economica sono state selezionate sette componenti: apertura economica (peso del 40%), concentrazione delle importazioni (15%), concentrazione esportazioni (15%), importazioni di energia (10%), capitale umano straniero (10%), rischio di catastrofi naturali (5%), rischio sanitario (5%). Nove dei quattordici piccoli Paesi del campione valutati, che comprende 32 Stati perlopiù molto sviluppati, mostrano una vulnerabilità superiore alla media – Irlanda, Svizzera e Belgio in testa.
Va però sottolineato come se in apparenza la ‘potenza fisica’, storicamente associata all’estensione territoriale e alla forza militare, ha iniziato a contare di meno decorrelando di fatto la taglia dal successo economico, al contempo un numero crescente di Stati si rivela disposto a partecipare a organizzazioni internazionali o ad alleanze sovranazionali in cambio di vantaggi economici e di un maggiore peso politico, come nel caso emblematico dell’Unione europea, al di là del presunto afflato culturale
L’indicatore di resilienza economica (Eri) include a sua volta due sottoindicatori ugualmente ponderati che ne rappresentano le due dimensioni costitutive. Da una parte, la solidità economica, che è data dalla stabilità macroeconomica, da una solida protezione sociale, dalla diversificazione economica, dallo spazio di politica fiscale e monetaria e da un settore privato finanziariamente sano. Dall’altra parte, mentre si moltiplicano le fonti di shock internazionali, tra cui il rischio di pandemie e il cambiamento climatico, la resilienza va interpretata in chiave di prontezza economica, da stimarsi in termini di buona governance, efficienza del mercato, innovazione, infrastrutture e capitale umano (voce che cattura il benessere della popolazione in senso lato, ossia in termini di istruzione, salute e partecipazione al lavoro), uguaglianza e mobilità sociale, comprendendo da ultimo anche un sano equilibrio fra sovranità e relazioni internazionali prudenti.
Nel complesso la classifica Eri suggerisce che i Paesi piccoli mostrano un alto livello di resilienza economica, mentre molti grandi si trovano in fondo. Realtà come la Svizzera e la Danimarca si piazzano al primo e al terzo posto.
Proprio la Svizzera, in quanto piccola economia aperta, ha ripetutamente dimostrato la capacità di affrontare e adattarsi alle nuove sfide: la forza del franco, la carenza di forza lavoro e la flessibilità di reazione alla pandemia e alle tensioni geopolitiche danno prova non solo di un’imprenditorialità dinamica e di una buona governance, ma anche di un’economia resiliente. Se la dipendenza energetica può essere contenuta grazie all’idroelettrico, piogge permettendo, e per ora al nucleare, innegabile è la forte esposizione alle fluttuazioni del commercio globale con un export che, eccezion fatta per l’industria chimica e farmaceutica (che ne costituisce il 52%) per il resto si fonda su prodotti strettamente suscettibili alle perturbazioni economiche, ad esempio l’orologiero (8%), ma anche macchinari (13%) e strumenti di precisione (7%) nell’industria. L’Unione europea non solo è il principale partner commerciale, ma con una percentuale relativamente alta di capitale umano straniero (26%) molti settori, quali la tecnologia, l’edilizia e la sanità, si affidano in larga misura a lavoratori stranieri, soprattutto dell’Ue, per cui qualsiasi interruzione di questo accordo avrebbe gravi ripercussioni. Con 14 delle prime 500 aziende in termini di capitalizzazione di mercato, le multinazionali contribuiscono in modo significativo al Pil elvetico e impiegano circa un terzo della forza lavoro. Sono però le numerose piccole e medie imprese a costituire la spina dorsale dell’economia, il 99% del totale, e a determinarne la resilienza. Dal canto loro, possono beneficiare della stabilità macroeconomica, di solide disposizioni in materia di assicurazioni sociali, dell’elevato grado di diversificazione economica e di un considerevole spazio di politica fiscale. Mercati efficienti, infrastrutture solide, normative favorevoli alle imprese e una forza lavoro altamente istruita, innovativa e sana la preparano ad affrontare nuove sfide, a contrasto ad esempio con la Grecia, che si colloca di fatti all’opposto della classifica, pagando la forte dipendenza economica da due settori principali, il turismo e il trasporto marittimo, e politiche fiscali insostenibili.
Indicatore di vulnerabilità economica (Evi) e indicatore di resilienza (Eri)
Va però sottolineato come se in apparenza la ‘potenza fisica’, storicamente associata all’estensione territoriale e alla forza militare, ha iniziato a contare di meno decorrelando di fatto la taglia dal successo economico, al contempo un numero crescente di Stati si rivela disposto a partecipare a organizzazioni internazionali o ad alleanze sovranazionali in cambio di vantaggi economici e di un maggiore peso politico, come nel caso emblematico dell’Unione europea, al di là del presunto afflato culturale. La globalizzazione ha infatti rafforzato i fattori che possono indebolire la sovranità di un Paese, come i flussi finanziari internazionali, le multinazionali o la presenza di problemi globali che possono essere risolti solo attraverso un’azione congiunta.
Alta vulnerabilità, alta resilienza
Che le dimensioni tornino a costituire un vantaggio comparativo lo ricordano le attuali condizioni geopolitiche: la guerra tra Russia e Ucraina, le tensioni sino-americane e il profilarsi di un blocco non allineato di Paesi emergenti stanno trasformando il mondo in un sistema multipolare, dove la fiducia reciproca tra Paesi e governi non possono essere dati per scontati. A queste si uniscono sfide come quelle sperimentate durante la pandemia e i cambiamenti climatici al centro dell’azione politica, sollevando ulteriori vulnerabilità che Paesi piccoli e grandi sono diversamente attrezzati per affrontare e superare. Mostrando che in questo caso, apertura o meno, si è tutti trasversalmente colpiti, basti pensare a una Svizzera che se pure genera solo lo 0,1% delle emissioni globali dirette, paga allo stesso prezzo il surriscaldamento del pianeta e in egual misura è chiamata a impegnarsi nella transizione.
Europa, terra di piccoli Paesi
Quando si parla di Paesi, non esiste una definizione univoca di ciò che viene considerato piccolo. In letteratura, le dimensioni di un Paese sono spesso concettualizzate da una misura unidimensionale come la popolazione, l’area territoriale o un indicatore di peso economico come il prodotto interno lordo o il reddito nazionale. Il numero di abitanti o il Pil possono fornire una buona idea delle dimensioni del mercato interno, mentre il territorio può illustrare la capacità di un Paese di produrre beni e servizi e la disponibilità di risorse naturali. Altri approcci si basano su variabili strutturali come il grado di partecipazione e riconoscimento nella politica internazionale, le caratteristiche geografiche o la dotazione di risorse e infrastrutture. Lo studio di Credit Suisse adotta invece un approccio multidimensionale, che utilizza l’analisi delle componenti principali per sovrapporre la dimensione del territorio alla popolazione e calcolare un indice delle dimensioni del Paese. Ad esempio, una nazione come la Norvegia ha una superficie simile a quella della Germania, ma solo il 6% circa della sua popolazione, perciò la prima è classificata come piccola e la seconda grande. Fra i 193 Stati membri dell’Onu risultano 86 piccoli Paesi, ubicati nelle diverse regioni del mondo, la maggior parte in Europa (31%) e in Asia (26%). Si differenziano per le caratteristiche geografiche (ad esempio, l’Austria rispetto all’Oman) e per livello di sviluppo (Singapore e Malawi). Più di un terzo risultano ad alto reddito secondo la Banca Mondiale, una quota molto più elevata rispetto ai Paesi di medie e grandi dimensioni, anche se il 14% è classificato a basso reddito.
I Paesi piccoli si differenziano anche per valori culturali e caratteristiche politiche e sociali. Alcuni hanno una lunga storia come Stati sovrani, mentre altri hanno raggiunto l’indipendenza solo di recente. Nonostante tale eterogeneità condividono alcune importanti analogie, come il problema della rappresentanza e dell’influenza nella politica internazionale, le diseconomie di scala nella fornitura di beni pubblici e nella diversificazione delle attività economiche, nonché l’elevato grado di vulnerabilità agli shock.
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