Mentre i mercati azionari e del Credito santificano la resilienza dell’economia americana, tributandole multipli ambiziosi e spread segaligni, la logica impone di non abbassare la guardia. Il trend disinflazionistico, con hard data che prolungano la fase espansiva, appare ai più come il migliore dei viatici, un sereno peregrinare nell’attesa che la Fed sia pronta a tagliare i tassi. Questo il messaggio dell’ultimo Fomc che ha alzato le stime di crescita 23/24, e confermato ottimismo sull’inflazione, dunque Goldilocks, seppur con una stonatura.
Nel 2022 la Fed aveva dato inizio al ciclo di rialzi dopo aver faticosamente cambiato idea sulla natura dei trend inflazionistici in atto. Trattandosi di inflazione da domanda per il 70%, in un sistema a pieno impiego e prono a pressioni salariali, bisognava muovere i tassi in campo restrittivo per raffreddare l’economia, ed evitare un salto delle aspettative. Dopo 16 mesi di questa ventilazione, con oltre 500 punti base di rialzo, l’impianto di aria condizionata ha raffreddato la stanza di qualche grado, ma la Fed dichiara di ‘voler procedere con cautela’. Gli shock sul lato dell’offerta sono in archivio, e il mercato del lavoro ha iniziato a raffreddarsi, ma i recenti rialzi di energia e materie prime potrebbero posizionare i prossimi frutti nella lotta all’inflazione su un ramo più alto, e il mercato del lavoro resta sempre robusto e saturato, con disoccupazione vicinissima ai minimi, posizioni lavorative aperte e tassi di mobilità molto elevati, e perduranti rivendicazioni salari, come testimoniato dal rischio di sciopero su larga scala promosso dai sindacati automobilistici, e da una crescita dei salari superiore a quella fisiologica.
Si dovrebbe essere in montagna sotto la neve e invece si è ancora in gommone sotto il tendalino. La spiegazione sta nel ruolo antagonista giocato dalla politica fiscale, che ha più che compensato la restrizione monetaria, incrementando il disavanzo primario malgrado la crescita del costo del servizio, e del debito pubblico. Solo 4 mesi fa il Cbo, l’organo apartitico che presiede alla valutazione delle leggi di Bilancio americane, proiettava un deficit in linea con quello 2022 (5,7%), rivedendolo poi al 6,3, e prevedendo che resti intorno al 6% per un decennio.
Un deficit di tali dimensioni senza una recessione è già una notevole anomalia, ma una sua stabilizzazione è una rivoluzione copernicana; nel periodo 2013-2019 si era mediamente attestato intorno al 3,5%, mentre nel 1950-2008 era rimasto intorno al 2%. Esiste inoltre un’elevata probabilità che la posizione fiscale si deteriori ben oltre, sembra improbabile evitare una recessione per dieci anni, e già oggi la spesa per interessi sta crescendo. I repubblicani sono restii a nuove tasse e i democratici a qualunque taglio di spesa, a dispetto di un trend che vedrà la componente obbligatoria (le spese sanitarie ad esempio) continuare a salire. Peraltro, le previsioni del Cbo appaiono ottimistiche in vari ambiti, come nel caso dell’Ira, 400 miliardi entro il 2031, contro i 900 stimati dal Brookfield Institute, o i tagli fiscali di Trump, o ancora delle spese per difesa e cambiamento climatico, per non parlare del tasso d’interesse reale, proiettato a zero per un decennio.
La politica fiscale americana si è impegnata a contrastare quella monetaria, in un evidente cortocircuito a livello di politiche macro, a un costo eccessivo. Il debito pubblico americano è cresciuto di quasi il 50% dall’avvento del Coronavirus, passando da 17 a 25 trilioni di dollari, seppur il rapporto debito/Pil sia poi leggermente sceso per l’alta inflazione, ma come detto tenderà ora a salire vigorosamente. Sebbene al 122% tale rapporto non appaia particolarmente alto, gli Stati Uniti sono il secondo Paese sviluppato (dopo l’Italia) con la più alta incidenza della spesa netta per interessi sulle entrate fiscali, dato che la base imponibile è particolarmente bassa (31%) rispetto all’Europa (47% medio).
Anche l’Europa peraltro ha problemi fiscali urgenti, in vista del ritorno nel 2024 del Patto di stabilità, sospeso nell’era pandemica. Proprio di recente il Fmi è tornato a lanciare l’allarme sulla crescita del debito globale, da ricondurre all’uso allegro del bilancio pubblico. In questo contesto la politica fiscale americana ha solo due scelte, fermarsi o accelerare:
– La prima conduce a una recessione, per l’azzerarsi dell’impulso all’economia, e all’inasprirsi della stretta monetaria. Già oggi si sta assistendo a una chiara crescita dei tassi di delinquency sulle carte di credito e sugli Abs, e il più rapido aumento delle bancarotte di Pmi dal 2008, oltre che un aumento dei default in Hy e leveraged loans, ma la situazione è destinata a peggiorare. Mentre l’80% dei rialzi della Fed è avvenuto nel 2022, l’80% di quelli sulle diverse forme di prestito al consumo e investimento avverrà entro il 2023.
Al rialzo dei rendimenti nominali si aggiunge ironicamente il contributo negativo portato dal calo dell’inflazione, che spinge al rialzo i tassi reali, quelli che davvero contano. Le banche americane siedono al momento su perdite non realizzate pari a 558 miliardi secondo il Fdic (ma altri come Whalen stimano perdite fino a 1,2 trilioni), e nel 2024 saranno soggette a una notevole pressione al rialzo della remunerazione pagata sui depositi, visto che fin qui il deposit beta è stato pari a circa il 30% (150 bps di aumento medio). Ergo non stupisce che dalla Sloos (la survey sugli standard di concessione di credito bancario) emerga riluttanza a erogare, e a tassi sempre più elevati.
La politica fiscale americana si è impegnata a contrastare quella monetaria, in un evidente cortocircuito a livello di politiche macro, a un costo eccessivo. Il debito pubblico americano è cresciuto di quasi il 50% dall’avvento del Coronavirus, passando da 17 a 25 trilioni di dollari, seppur il rapporto debito/Pil sia poi leggermente sceso per l’alta inflazione, ma come detto tenderà ora a salire vigorosamente.
Il tasso di risparmio è passato dal 7,6 nell’era pre-pandemica al 3,5%, molto al di sotto delle medie storiche, mentre i risparmi in eccesso sono passati da un picco di 2,1 trilioni di dollari nel 2021 a 400 miliardi, e si prevede esauriscano entro la prima metà del 2024. Il 1 ottobre dovrebbero ripartire i pagamenti sugli Student Loans, sospesi durante la pandemia, mentre il costo della benzina sta drenando risorse dalle tasche degli americani. La media trimestrale dei posti di lavoro creati è attualmente pari a 150mila, mentre la disoccupazione è superiore alla media a 12 mesi dello 0,2%; storicamente quando si scende sotto i 200mila posti, la recessione avviene entro l’anno successivo; e quando si verifica la seconda condizione, segue sempre una recessione, come del resto quando la media trimestrale della disoccupazione cresce di oltre lo 0,3%.
Mentre il mercato festeggia per la crescita del 4% dei consumi nel terzo trimestre, il 2024 delinea un’elevata probabilità di recessione. Per l’economia è una buona notizia, per sconfiggere un’ondata di inflazione endogena è indispensabile la distruzione di domanda. Ciò avverrebbe però con contrazione degli utili societari, il che non è una buona notizia, con i mercati che scontano: accelerazione della crescita e ritorno dell’inflazione a target, utili in rialzo, espansione dei margini, ed equity risk premium inferiore ai T-bills.
– Lo scenario alternativo è quello in cui la politica fiscale accelera per contrastare la monetaria. Questo scenario, che ha una probabilità non trascurabile date le elezioni, avrebbe implicazioni negative molto serie nel medio-lungo periodo, specie se accompagnato da un atteggiamento più possibilista della Fed relativamente ai tagli in concomitanza con inflazione più bassa per effetti base meccanici. Oltre all’impatto sui conti pubblici, e allo spiazzamento del mercato del credito, stimolare un’economia molto vicina al pieno impiego, a cui non è stato consentito di rifiatare, potrebbe facilmente sfociare in una seconda ondata di inflazione stile anni Settanta, con rischi ancora più elevati.
Questo scenario sarebbe molto più negativo nel medio-lungo termine anche e soprattutto per i mercati. Parafrasando Oscar Wilde, gli investitori dovrebbero stare attenti a quello che desiderano, perché potrebbero ottenerlo.
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