TM   Maggio/Giugno 2023

È solo un numero

Il Prodotto Interno Lordo è spesso usato quale chiave di lettura per determinare i successi o gli insuccessi di un intero Paese, ma si tratta semplicemente di un numero, dietro cui possono celarsi un mondo di possibili dinamiche, e che si presta a infinite letture. Intorno allo stesso si concentra da anni un vivace dibattito, come sostituirlo o migliorarlo non è però immediato.

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Tanti numeri, molti indicatori, infiniti modelli statistici, econometrici e previsionali, qualche regola del pollice, accompagnati inevitabilmente dalle view di fior fior di analisti, di altrettanto blasonati istituti, in cerca di un qualche segnale nelle parole di questo o quel decision maker che potrebbe fare la differenza, o meglio, dal loro consensus, dunque un’altra media. Un approccio prevalentemente quantitativo, stemperato da qualche nota qualitativa. È questa l’economia moderna, di stampo anglosassone? Molto probabilmente sì, seppur non solo.

Massima espressione del modello capitalistico, e saldamente in testa a ogni classifica, si piazza il Pil: il Prodotto Interno Lordo. L’indicatore per antonomasia di quale sia l’andamento economico, e dunque nell’ultimo mezzo secolo, almeno in Occidente, rappresentativo estensivamente di fortune e sfortune di ogni Paese. Un mondo, o comunque una sua importante parte principalmente su un fronte per l’appunto economico, profondamente ‘laicizzato’ che ha scaricato sul Pil la propria volontà di potenza, e il regolamento dei rapporti di forza tra Stati. Non casuale e trascurabile, economia ed esercito più grandi al mondo convivono nello stesso territorio sin dal Dopoguerra.

Un parallelismo, questo, facilmente rintracciabile anche nella Storia, più o meno lontana, seppur con qualche sostanziale differenza. È infatti il caso di Londra, potenza egemonica globale per diversi secoli, l’estensione del cui impero superò il precedente record di Roma. Se alla base del successo dell’Impero Britannico sicuramente si trova la rivoluzione industriale, allo stesso tempo l’elemento chiave per l’Impero Romano era una precoce ma straordinaria produzione su larga scala di beni di largo consumo, anche a duplice uso, e un vivace interscambio tra regioni e popoli distanti e diversi.

L’economia romana, dunque anche prima di Augusto, era sempre stata fortemente specializzata, non solo per una mera questione di materie prime, e per sostenere lo sviluppo di tali distretti industriali la più semplice delle soluzioni si era trovata in un sistema bancario e finanziario efficiente e complesso, con non troppo arditi facili paragoni con la contemporaneità. A riprova lo straordinario tasso di urbanizzazione della popolazione, anche escludendo l’eccezionalità di Roma stessa, andato poi aumentando rapidamente.

Nonostante grandi differenze di secolo in secolo, e dati molto incerti, frutto di stime spesso fantasiose, la popolazione dell’impero si aggirava tra un minimo di 50 e un massimo di 120 milioni di persone, indipendentemente dal totale, però, il suo tasso di urbanizzazione, ossia la quota di persone residenti in aree urbane, fluttuava tra uno straordinario 15 e un eccezionale 40%. Quale paragone si consideri che nel Medioevo in Europa era intorno al 5%, del 6 nel Rinascimento, e del 10 negli anni di Napoleone.

Si potrebbe dunque affermare che il Pil romano fosse superiore a quello britannico? Del resto, tra i prerequisiti di un’elevata urbanizzazione si cela certamente lo sviluppo di un avanzato sistema monetario, oltre quantomeno a un’efficiente logistica, e può essere il riflesso di un’elevata aspettativa di vita. Non è però così semplice a dirsi. La vivacità del commercio è senza dubbio un’ottima premessa, al pari dell’ingegnerizzazione della finanza romana, ma da contraltari si pongono con prepotenza la schiavitù nelle sue molte forme, ben più del 10% della popolazione, un’ampia classe politica spesso non retribuita, e un’economia di sussistenza nelle campagne.

Il Pil è e rimane una dimensione strettamente legata a un’economia di stampo manifatturiero, in cui determinare il valore dei prodotti è relativamente semplice, e corrisponde sempre a un costo di produzione. Discorso completamente differente rispetto a una invece fortemente terziarizzata, in cui la voce di costo dominante è il capitale umano, già più difficile da valorizzare. Ed è qui che iniziano i problemi. Il suo principale limite è infatti il legame a una dimensione strettamente monetaria di quanto effettivamente ‘prodotto’, sia esso un bene che un servizio.

Allo stesso tempo, però, l’economia è anche tutto il resto, quanto non è produzione, e quanto non ha un valore così facilmente quantificabile. Se dunque si potrebbe affermare il Pil sia un indicatore vecchio, e ormai passato, il come sostituirlo o integrarlo apre un dibattito potenzialmente sconfinato. Dunque?

Gli indici definiscono i problemi, non solo economici, che la Politica cerca di risolvere. Se sono obsoleti o parziali i Governi continueranno ad adottare politiche inefficaci, che non possono avere successo, ma che un’interpretazione migliore dei dati avrebbe magari del tutto sconsigliato

Cio di Ubs Wealth Management

Elena Guglielmin

Cio di Ubs Wealth Management