
Dovette avvicinarsi a quella che si presenta oggi ai visitatori della nuova mostra del Museo d’arte della Svizzera italiana (MASI), la visione che commosse Alexander Calder quando, nel gennaio del 1931, invitato all’atelier di Mondrian, immaginò quanto sarebbe stato bello se tutti quei rettangoli colorati appesi alle pareti bianche avessero potuto mettersi in moto nella luce che dalle grandi finestre attraversava la stanza. Da cinque anni nella capitale parigina, il giovane artista americano (1898-1976), che già aveva dato saggio di un approccio rivoluzionario alla scultura svuotandola del suo peso con l’invenzione di ritratti in filo metallico privi di massa, spiccava in quel simbolico giorno il volo verso l’astrazione. Ne sarebbero nate le sue caratteristiche configurazioni di corpi geometrizzanti e forme organiche che, nei concertati equilibri dei loro elementi, esprimono quella stessa armonia che governa il cosmo.
Se le fluttuanti concatenazioni dei mobiles, così battezzati da Duchamps – uno che di rivoluzioni concettuali se ne intendeva – ne sono nel loro costitutivo dinamismo la più compiuta espressione, persino gli stabiles – nome invece coniato da Jean Arp – pur essendo sculture statiche autoportanti, captano l’energia del moto nel contrappunto fra la centripeta forza della gravità e l’aereo slancio della creatività.
Benché non pochi si ostinino a presentare Calder come l’ingegnere che divenne artista, lui stesso ricordava come avesse invece abbandonato dopo quattro anni quegli studi perché non gli permettevano di giocare abbastanza con l’ingegno. Come invece fecero le sue mani e il suo intuito cui, ben più del calcolo di pesi e misure, si affidava nella costruzione artigianale delle sue opere: tagliando e accordando forme, intrecciando e tendendo fili, procedendo per tentativi di bilanciamenti e armonie. È l’interesse che fin da bambino – cresciuto in una famiglia di artisti, padre scultore, madre pittrice – lo aveva portato a ricercare una componente cinetica già nelle sue prime sperimentazioni, come l’anatra costruita a dieci anni piegando a mo’ di origami una lastra di ottone, a permettergli di compiere l’apparentemente impossibile sfida di integrare una quarta dimensione, quella del tempo, all’interno della scultura, di fatto rendendola, nel suo perenne divenire, sempre presente.
Trenta le opere dell’artista giunte da importanti collezioni pubbliche e private internazionali a Lugano per la mostra Calder. Sculpting Time, al MASI fino al prossimo 6 ottobre, la più completa monografica dedicatagli da un’istituzione pubblica svizzera negli ultimi cinquant’anni. Ne testimonia una fase cruciale, fra gli anni Trenta e Sessanta, dalle prime astrazioni o sphériques a una magnifica selezione di mobiles, stabiles, standing mobiles e constellations, queste ultime ulteriore declinazione della creatività di Calder che, quando durante la seconda guerra mondiale scarseggiava il metallo, cominciò a intagliare blocchi di legno in varie fogge e a dipingerli nei colori della sua essenziale tavolozza, sempre poi collegandoli con precisi ritmi e rapporti spaziali.
Trenta opere potrebbero sembrare un numero contenuto, ma è più che notevole considerandone la qualità, con capolavori come Eucalyptus, che debuttò nel 1940 alla Pierre Matisse Gallery di New York o, fra gli stabiles, la curvilinea Croisière. Ciascuno è stato selezionato con estrema competenza e determinazione nell’ottenere i pezzi che considerava imprescindibili da Carmen Giménez (curatrice della mostra insieme ad Ana Mingot Comenge) che dell’artista è fine conoscitrice sin dalla celebre retrospettiva Calder. La gravedad y la gracia cui lavorò per il Guggenheim Bilbao una ventina di anni fa e che con l’exploit di questa esposizione conclude il suo mandato in qualità di Presidente della Fondazione MASI Lugano.
Una ventina di lavori proviene direttamente dalla Calder Foundation di New York, molto attenta e capace nel valorizzare l’opera dello scultore, in stretto dialogo con la quale è stato concepito il progetto espositivo, importante garanzia di qualità e correttezza filologica.

Lo ha confermato il nipote di Calder, Alexander S. C. Rower, che della Fondazione è testa e cuore. «Quando si visita una mostra dedicata a Calder si vedono sempre lavori stupefacenti, in continua trasformazione, ma in questa a Lugano, grazie a Carmen, avete la possibilità di ammirare anche opere che nessun altro avrebbe scommesso di poter esporre. Quando, ad esempio, ci ha richiesto Red Lily Pads (1956), le abbiamo risposto che sarebbe stato impossibile, ma lei è stata irremovibile. Poi mi ha presentato il direttore del MASI Tobia Bezzola, con cui è nata una bella amicizia, e anche lui ha insistito… tanto che ora potete ammirarla di fronte alla grande vetrata sul lago. È stata dunque una mostra impegnativa e sfidante anche per noi. Fra la ventina di capolavori prestati, ci tengo a citare un mobile del 1939, un’opera senza titolo costituita da tre gabbie in fil di ferro che sembrano catturare la densità dello spazio e rinviare a un’altra dimensione: non era stata più esposta durante la pandemia e, come segno di grande stima per Carmen e il suo team, abbiamo voluto portare al MASI anche questo pezzo per me molto speciale», ha rivelato il nipote di Calder all’inaugurazione.
Grande merito dell’impatto della mostra, oltre che al valore delle opere, va all’allestimento che sostiene alla perfezione la poetica di Calder trovando l’ideale compromesso fra estetica curatoriale e tutela delle opere, che per ragioni di preservazione non possono più essere messe in moto dal pubblico come originariamente previsto. Carmen Gimenez ha risfoderato la soluzione che aveva concepito a Bilbao, con le tondeggianti piattaforme di legno bianco appositamente costruite a fare da base: da una parte demarcano un naturale perimetro di sicurezza intorno alle orbite tracciate dalle creazioni-creature di Calder, consentendo però di osservarle a 360 gradi. Dall’altra parte, costituiscono una scenografia minimalista ma consistente, in grado di esaltare anche le opere meno appariscenti; inoltre, riflettendone le ombre, introducono un’ulteriore dimensione, insieme all’attento studio dell’illuminazione. Ne risulta, nel grande spazio aperto senza pareti divisorie al primo piano del Lac, una sorta di metafisico arcipelago di cangianti organismi metallici.
Il consiglio, approfittando dei prossimi mesi, fino al 6 ottobre, è di scovare un orario di visita poco frequentato per un’esperienza autenticamente immersiva nella galassia di Calder. Nessuna riproduzione può restituire la vibrazione che si avverte in presenza, dove mentre l’occhio riscopre la sostanza della multidimensionalità, lo spirito incontra il senso della profondità, equazione di spazio e tempo.
Raccontava Calder che, quando ventiquattrenne si era imbarcato come fuochista per andare da New York a San Francisco attraverso il Canale di Panama, durante la traversata, al largo del Guatemala visse un’esperienza ‘trasformativa’ svegliandosi al mattino mentre ai lati opposti dell’orizzonte nello stesso istante il sole sorgeva e la luna tramontava. La sensazione del movimento del sistema solare che ne conservò, e più tardi i suoi entusiasmi per i modelli osservati nei planetari, infinita riecheggia nella cosmica armonia che è l’essenza delle sue opere.

Proprio come le opere di Calder, a dispetto dell’apparente levità, sono un gioco serissimo, così realizzare la mostra comporta uno sforzo logistico e organizzativo notevole. «Fra la preparazione degli spazi espositivi e l’installazione delle opere è stato necessario oltre un mese e mezzo di intenso lavoro, preceduto dal dialogo con i prestatori per gli approfondimenti tecnici e allestititivi, si prenda l’esempio dei mobiles che arrivano scomposti nei loro moduli costitutivi da bilanciare al momento dell’installazione, richiedendo fino all’intervento di sei tecnici in fase di montaggio. La presenza dello specialista della Calder Foundation, con un’esperienza trentennale, ha permesso uno scambio arricchente con il nostro team Restauro e tecnica», racconta Sara De Bernardis, responsabile Conservazione e Restauro del MASI Lugano. Il suo dipartimento lavora coordinandosi con i curatori, che scelgono opere e collocazione, la registrar, che gestisce i contratti di prestito e organizzazione dei trasporti, e il dipartimento di tecnica museale, che si occupa dell’allestimento delle opere. All’arrivo delle casse, scortate dal corriere, si segue la procedura di scarico, viene controllata la documentazione per poi procedere all’apertura dopo 24 ore di climatizzazione – che possono arrivare a 48 in casi di consegne cargo dagli Stati Uniti come molte di queste. Una volta che il conservatore-restauratore ha redatto il condition report, può iniziare il lavoro di allestimento. «Gli interni di alcune di queste casse sono ‘puro design’: per il trasporto le opere vengono infatti disassemblate nei moduli originariamente predisposti da Calder e per ogni singolo pezzo, che dalla sua consueta collocazione tridimensionale deve essere adagiato in uno spazio bidimensionale, viene creato un letto con supporti e spessori affinché non subisca stress a livello meccanico, poiché se anche un singolo filamento dovesse stortarsi, altererebbe l’equilibrio dell’intera opera», spiega Sara De Bernardis, che Calder lo aveva già incrociato sulla sua strada anni fa, collaborando a una mostra della Fondation Beyeler, prima della sua esperienza alla Tate di Londra.
Complessa è stata anche la gestione dell’illuminazione, sia quella artificiale, poiché l’ombra deve essere ‘pulita’ e non invasiva, cosa non semplice specialmente per le opere semoventi – sia quella naturale che per nel caso di pezzi dipinti a mano dallo stesso artista non può eccedere determinati livelli di lux, con una sensibilità simile ai quadri a olio. Così per la punta dello spazio espositivo, coronato dalla grande finestra sul lago, sono state scelte due sculture, Red Lily Pads, 1956, e Funghi Neri, 1957, adatte a essere esponibili a luce più forte. «Successivamente, nel corso della mostra, il nostro principale compito è garantire il monitoraggio settimanale delle opere, approfittando di solito del lunedì, quando è chiuso il museo, per un controllo e, se necessaria, una spolveratura, per mantenerle in perfette condizioni», conclude Sara De Bernardis. Un fondamentale lavoro dietro le quinte, quello del suo dipartimento, cui spesso non si pensa, ancor più impegnativo per opere sfidanti da trasportare e allestire come queste.
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