Negli ultimi anni l’inflazione è tornata prepotentemente a essere tema di discussione e dibattito in campo macroeconomico, dopo un decennio abbondante in cui pareva essersi infine assopita. In ambito finanziario il ritorno di dinamiche inflative ha avuto conseguenze molto negative per il mercato obbligazionario, che nel 2022 ha vissuto il peggiore anno degli ultimi decenni.
In tale contesto i bond inflation-linked hanno goduto solo parzialmente di rinnovato interesse da parte degli investitori; questo perché la loro costruzione prevede un rischio tasso che li mantiene piuttosto correlati ai bond nominali, e quindi poco adatti per giocarsi in modo direzionale un aumento dell’inflazione. Per tale motivo gli investitori che vogliono beneficiare direttamente di un rialzo dei prezzi puntano su strumenti come oro, materie prime, e beni reali in generale, mentre chi cerca ritorni di tipo obbligazionario tende a rimanere investito sul mercato dei bond nominali, decisamente più grande e molto più liquido.
Un altro fattore che rende complessa la valutazione di tali strumenti è la difficoltà da parte del mercato di stimare i tassi di inflazione futuri. Le più comuni misurazioni di aspettative di inflazione si basano su swap di mercato o su survey presso i consumatori, come ad esempio quella elaborata dalla University of Michigan. A livello empirico i risultati di tali rilevazioni mostrano una capacità predittiva piuttosto limitata, evidenziando una tendenza a proiettare nel futuro ciò che è avvenuto nel recente passato. I consumatori, e in parte minore anche gli investitori, basano le loro aspettative su ciò che hanno recentemente osservato, privando gli indicatori della natura ‘forward looking’ da cui in teoria dovrebbero essere prevalentemente caratterizzati per essere utili a livello predittivo.
L’apparente sottovalutazione strutturale dei bond inflation-linked è argomento dibattuto ormai da diversi anni, anche in ambito accademico. L’ipotesi più accreditata è che la minor liquidità conduca alla presenza di un risk-premium strutturale in questo mercato.
A livello meramente aneddotico si possono misurare le performance realizzate da bond inflation-linked rispetto a obbligazioni nominali dalle medesime caratteristiche, emesse negli Stati Uniti nel 1999 e nel 2010. La performance nel tempo si è dimostrata migliore, anche attraversando periodi caratterizzati da bassa inflazione come gli anni 2010. Come aspetto negativo va segnalato che durante grossi shock di mercato, in particolare 2008 e 2020, si sono verificati periodi di sottoperformance estrema, seppur di breve durata. Risultati simili si ottengono anche analizzando le emissioni sulla curva britannica.
I bond inflation-linked rappresentano quindi un ottimo strumento di allocazione di medio-lungo periodo, con il quale l’investitore può catturare un risk-premium apprezzabile mantenendo una liquidità comunque di buon livello. Inoltre, l’atteggiamento delle Banche Centrali è tendenzialmente asimmetrico, dato che sono propense a tollerare in via momentanea periodi di inflazione sopra target, mentre sono molto proattive nel combattere i rischi deflattivi; ciò rende prezioso avere una parte della componente obbligazionaria con caratteristiche difensive a fronte di potenziali shock inflativi, sempre possibili, come quello appena vissuto.
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