TM   Ottobre 2023

Bene comune, interesse privato

I mercati privati sono ormai anni che attirano un crescente interesse, ma soprattutto da parte di una sempre più ampia varietà di investitori, non più solo istituzionali. I bei tempi delle agognate Ipo sono trascorsi, le imprese non sono più interessate a quotarsi, ma ben disposte nel dialogare con potenziali investitori privati. Quali sono i pro e i contro di questa asset class? È davvero possibile conciliare benessere della società, con l’interesse degli investitori? E la vera domanda: il ritorno di rendimenti obbligazionari nominali accettabili che impatto avrà sul vasto mondo degli alternativi?

di Federico Introzzi

Responsabile editoriale Ticino Management

Tanto sfuggenti e impalpabili, quanto concreti e tangibili. È il mondo degli investimenti alternativi, o meglio, quello dei Private Market. Sicuramente curioso è che all’interno della stessa definizione possano convivere la solida concretezza di materie prime e infrastrutture, unitamente a tutte le altre forme di investimenti per l’appunto ‘alternativi’, a partire dal vasto universo del non quotato. Per certi versi, e a ben vedere, una somiglianza è forse possibile trovarla: l’estrema illiquidità dei mercati privati può nel corso del tempo assumere una qualche sfumatura di tangibilità? Si tratta del resto di investimenti altrettanto reali e concreti, quali le Pmi del manifatturiero europeo, start up altamente innovative del BioTech, spinoff ad esempio dei politecnici federali svizzeri, per arrivare alle grandi Maison della moda e dell’orologiero. In una parola: alternativi.

Se all’interno dell’attuale breve parentesi sono davvero considerati tali, una possibile aggiunta all’interno di un portafoglio bilanciato e con una buona redditività, almeno sulla carta e a patto di non trovarsi nel 2022, sino a pochi mesi fa gli alternativi, nell’epoca dell’epica caccia ‘al rendimento’ in presenza di tassi d’interesse nominali pesantemente negativi, erano una scelta autoimposta, come lo erano stati per centinaia d’anni.

A eccezione infatti di una fase della storia antica, limitata e circoscritta anche geograficamente, i possibili investimenti si erano sempre concretizzati negli attuali sbrigativamente definiti alternativi, dunque immobili per i più ambiziosi, castelli e tenute, mentre materie prime per i più scaltri e timorati, metalli rari e preziosi. In questo non fanno eccezione nemmeno oggi i Paesi emergenti, Cina e India in testa, con un ruolo chiave ricoperto ancora da case e terre, o molti Sviluppati, nel caso dell’immobiliare. Segno forse che anche la più ingegnerizzata ed eterea forma di finanza necessiti ogni tanto di almeno un po’ di tangibile concretezza?

Ma a proposito di quella fase limitata e circoscritta, romana ed europea, prima repubblicana e poi imperiale. Nonostante nel corso dei secoli, dalla sua fondazione, Roma avesse sviluppato anche per necessità e contingenza una forma estremamente evoluta di sistema economico e finanziario, i beni d’investimento che la tradizione imponeva ai ceti più alti erano proprio alternativi, ma tra questi quelli con marginalità e rendimento inferiori. Dunque, buona parte del patrimonio di un senatore doveva essere in immobili, principalmente in patria e all’estero, a compensare una seconda ‘asset class’ oggi discutibile, ma all’epoca diffusissima, gli schiavi, di gran lunga più remunerativi ma quindi anche molto costosi.

Rispetto alle strategie pubbliche, il credito privato ha sempre offerto rendimenti maggiori per una semplice ragione: i gestori sono in grado di ottenere protezione dai ribassi, grazie a un’ampia e particolareggiata due diligence dei potenziali mutuatari, e covenant interessanti

Marco Bizzozzero

Marco Bizzozero

Head of International di iCapital

Non deve dunque sorprendere che nel corso del tempo molti nobili fossero ‘decaduti’, o avessero redditi e patrimoni appena sufficienti per mantenere un seggio in senato (tra questi lo stesso Giulio Cesare, della più nobile delle discendenze), dove invece iniziarono ad abbondare noti esponenti del ceto medio, dunque mercanti e in epoca imperiale nobiltà ‘barbara’. Cosa aveva di così rivoluzionario il ceto medio? Molto semplicemente la possibilità di accedere a forme d’investimento più remunerative e più difficilmente tassabili, dunque azionario e obbligazionario, quotato e non quotato, tra queste attività produttive e commercio, trasporto marittimo e servizi.

Il portafoglio di un senatore era dunque a tutti gli effetti al riparo da eventuali pressioni inflative, o almeno in teoria, ma soffriva di forte illiquidità, che nelle fasi più tormentate della storia romana collimava con gravi crisi di liquidità. Allo stesso tempo era però anche soggetto a imposte e tributi che nelle fasi turbolente restavano una concreta alternativa per rimpinguare celermente le casse dello Stato, per quanto, e ne va dato atto, patrizi e senatori in più di un’occasione contribuirono alle esigenze di Roma con forme di tassazione spontanea, organizzandosi per raccogliere le risorse necessarie all’emergenza del momento. È in occasione di tali circostanze che nacque ad esempio il concetto moderno di ‘società per azioni’, durante le Guerre Puniche.