Contrariamente al pronostico iniziale, mi accingo a riprendere I quaderni di un golfista quasi un anno dopo l’ultimo capitolo. A scanso di equivoci, desidero precisare che non ho sospeso le mie attività golfistiche per tale eternità, però, come tanti professionisti, sono stato sotto il giogo derivato dal peccato originale (non aver inventato un ‘golf course’ nel Paradiso) ed ho dimostrato certa debolezza al momento di scegliere tra una piuma ed un ‘put’. Ora, reduce da un’estate ben trascorsa sempre alle rive del Cantabrico, ritrovo lo spirito ideale per un terzo capitolo de I quaderni di un golfista.
Per il lettore che è in procinto di fruire per la prima volta di un mio scritto nella materia, o per chi ha preferito rimuovere i ricordi di quanto da me scritto un anno fa per dare il giusto posto ad informazioni e nozioni più utili (come per esempio quelle derivate dalla lettura di À la recherche du temps perdu o del Also sprach Zarathustra), è ineluttabile che sia posto nel giusto contesto. Sono un giocatore che è stato iniziato al golf da adolescente, ma che negli ultimi venti anni ha sofferto le conseguenze di una malattia, la spondilite anchilosante, con l’effetto drastico di irrigidimento delle articolazioni e soprattutto del mio ‘handicap’ che rimane fisso a 28. Non scrivo dunque dal punto di vista di chi disputa un premio nel campionato sociale del Club di golf ma neppure di chi legge prima il Golf Digest che il Corriere, ma da eclettico appassionato di uno sport che mi ha accompagnato la maggior parte della vita.
A proposito della qualificazione di ‘sport’, mi viene in mente un passaggio di un libro che ho riletto dopo tanti anni, El Maestro de Esgrima di Arturo Perez-Reverte, il cui protagonista, un maestro di scherma di fine ‘800, esprimeva la sua indignazione per la qualificazione della scherma come ‘sport’ quando per lui, così come per i maestri classici italiani e francesi, non poteva essere qualificata altrimenti che come ‘arte’. Sarà che la mia passione per la scherma condivide il podio con quella per il golf, ma non mi sento così scomodo nel provare certa simpatia per tale indignazione e propensione per applicarla ad entrambe le discipline.
Venendo al dunque: avevo annunciato la ripresa de I quaderni da un ‘tee’ di Madrid ma il caso ha voluto che alla fine di maggio mi sia concesso il lusso di scappare con tre colleghi per un fine settimana golfistico nella provincia di Almeria (regione della ‘Andalucia’) e di incappare nel The Indiana Golf Course presso il Desert Springs Resort and Golf Club. Il campo fa decisamente onore al suo nome ed è ubicato in un paraggio apparentemente desertico e con una flora degna di un cartone animato di Disney ambientato tra il Texas e il Messico, con gli immancabili cactus e tante, tante pietre. Non abbiamo sofferto invece la mancanza della fauna tipica di quelle remote terre e sinceramente siamo stati sollevati dal non dover disputare il possesso di una palla caduta fuori dal ‘fairway’ con un serpente a sonagli. Certa perplessità ha causato l’avvistamento di una pinna di squalo nel laghetto che protegge il ‘green’ della buca 14 che finalmente, dopo aver scartato un trucco della gestione del campo per evitare la profanazione di un immenso tesoro di palle sommerse nel laghetto, abbiamo qualificato di trovata un po’ ‘kitsch’ con spirito più anglosassone che iberico (quest’ultimo avrebbe imposto piuttosto un toro).
Anche l’armoniosa architettura della Club House e delle villette circostanti trasportano il giocatore in un’atmosfera più californiana che andalusa rendendo il percorso molto originale. Come manifestato nel sito web: “Inspired by the famous desert courses of Arizona and California, the Par 72, 6,159M Indiana course is the first desert course in Europe and has been built to the full Usga specifications and quality standards of these desert courses, now famous for the quality of golf that they offer. (…) Desert Springs Resort was host the Tour Championship of the Pga Euro Pro Tour in 2015, 2016 & 2018 and 2019. Host in 2017 and 2018 to the European Tour Qualifying School 2nd Stage Desert Springs Resort entered into an agreement with the DP World Tour to be host to the event through to and inclusive of 2025”. È stato qualificato il sedicesimo miglior campo di golf di Spagna tra 406 selezionati dai giocatori nella rete ‘Leading Courses’ con il distintivo ‘Golfer’s Choice Outstanding’. A livello europeo il club è stato considerato come uno dei 100 migliori d’Europa nel 2023 dalla rivista National Club Golfer e nel 2022 dalla rivista Golf World.
La Club House è accogliente, con buoni servizi ed un gradevole bar e ristorante con terrazze ed un ameno canale che offre una sensazione rinfrescante, molto apprezzata in estate.
Si accede al tee della buca 1 (par 5 ‘Cactus Point’) percorrendo una stradina tra graziose villette e lo stesso tee è circondato da residenze di intrepidi proprietari che hanno considerato i vantaggi di accedere al campo con un passo di danza o di curiosare i primi tiri dei giocatori sotto pressione ben superiori ai rischi, considerevoli, di vedere colpite finestre, artefatti per la griglia e, nel peggiore dei casi, articolazioni corporee, da palle sparate a più di 100 km orari da un ‘driver’ di un golfista qualche secondo prima fiducioso di veder volare la sua palla a 250 m nel mezzo del ‘fairway’. Se è nota a tutti i giocatori di golf la pressione di giocare la prima palla nel tee della 1, normalmente piazzata nelle vicinanze del bar-terrazza della Club House e dunque alla vista di ogni tipo di curioso (dai parenti sostenitori ai critici incalliti), nella Indiana Course la pressione è acuita anche dal ‘marshall’ che, prima chiede il giuramento solenne di rispettare le regole, in particolare quella di giocare con il ritmo di ‘Achille dal piè veloce’, e poi ti osserva da una distanza sufficiente per sentirlo sbuffare come un toro. Può darsi che questo trattamento sia riservato esclusivamente agli ospiti che giocano per la prima volta, emigrati da Madrid e con handicap alti.

Superato il rito di iniziazione del tee della 1, il percorso si sviluppa su dei ‘fairways’ normalmente dritti, su un terreno pianeggiante e con un’erba ben mantenuta. Questa la parte idillica. Quella infernale è invece rappresentata dal fatto che le ‘fairways’ sono strettissime e che a parte i ‘roughs’ micidiali il territorio fa onore al nome del ‘resort’ ed è un autentico deserto con un’abbondante presenza di pietre di dimensioni dalla sabbia al monolito. Chi riesce a giocare con certa precisione ha una chance di terminare il percorso con certa leggiadria ed ammirazione per il paesaggio; gli altri invece sono condannati a cercare (o più facilmente, a perdere) la palla sempre con l’apprensione di trovare una vipera, oppure a mettere a dura prova la resistenza dei propri ferri nel colpire la palla su una superficie sicuramente non pensata per il gioco del golf. Non a caso una delle regole d’etichetta ben segnalata sulla ‘score card’ è: “signal the following match through if your golf ball is not immediately found”. Va pur detto che, se tutti i giocatori osservassero alla lettera detta regola, l’amministrazione del campo dovrebbe mettere a disposizione delle sedie affinché i giocatori, dal deserto, vedano sfilare le poche partite che riescono a prendere costantemente i ‘fairway’. Se un aspirante giocatore avesse qualche remora per i rischi derivati dalle spine dei numerosi cactus, troverà rassicurante ed allettante che una regola locale li dichiara, sempre che contrassegnati, “immovable obstructions (Rule 16)”, ovvero scansabili con un ‘drop’ senza penalità.
L’eccezione che conferma la regola è la presenza anche di ostacoli d’acqua (iconica la buca 14 ‘Tiburón’, squalo, ‘ut supra’). Personalmente ho trovato proprio ostica la buca 15, un par 4 di 324m (hdcp 3), il cui nome ‘Abyss’ esprime perfettamente la profondità del mio morale dopo aver affrontato una distanza per me troppo notevole tra il tee ed il primo fairway con ostacoli di ogni tipo, che tra l’altro si scopre essere un’isola tra il secondo fairway, sulla sinistra (eccezione della regola dello ‘strait ahead’) e poi il green, con corsi d’acqua inclusi. La parola ‘Abyss’ mi fa invece ricordare un aneddoto quasi sicuramente sconosciuto fra i nostri lettori riguardante proprio il luogo dove si trova il Desert Springs Resort: Palomares. In effetti il 17 gennaio 1966 (praticamente 2 mesi prima della mia nascita), un bombardiere B-52 della forza aerea americana con 4 bombe termonucleari a bordo, durante un’operazione routinaria di rifornimento di combustibile in volo, sfortunatamente entrò in collisione con l’aereo cisterna KC-135, provocando una grande esplosione.

Per fortuna gli equipaggi riuscirono a lanciarsi e a salvarsi, ma le bombe atomiche a idrogeno (ben più potenti delle tristemente famose usate a Hiroshima e Nagasaki) si dispersero: due intatte, una nel fondo del mare nella vicina costa e la seconda nelle vicinanze della foce del fiume Almazora; due invece soffrirono la detonazione dell’esplosivo convenzionale che, in aggiunta all’impatto a terra, provocarono la distruzione degli ordigni e la dispersione del loro contenuto. Ufficialmente il governo degli Usa in accordo con il governo spagnolo, negarono l’accaduto, un ‘Broken Arrow’ in tutta regola, ma misero in atto un immediato dispositivo di ricerca della bomba atomica caduta intera in mare. Questa fu finalmente trovata il 7 aprile 1966 a 750 metri di profondità grazie alla collaborazione di un pescatore spagnolo chiamato Francisco Simó Orts (conosciuto d’allora con il nome di ‘Paco el de la bomba’). Probabilmente il fatto più ricordato tra gli spagnoli è la ritrasmissione in televisione il 7 marzo 1966 di un bagno dell’ambasciatore americano in Spagna, Angier Biddle Duke, e l’allora ministro dell’ informazione e del turismo, Manuel Fraga (politico molto conosciuto ed attivo durante e dopo la transizione), sulla spiaggia di Quitapellojos presso Palomares, con il chiaro obiettivo di silenziare i rumori di contaminazione nucleare nella zona a pregiudizio delle attività turistiche (ovvero di un settore che, all’epoca, era la principale fonte di reddito di tutta la Spagna). Chiusa la parentesi, preciso che, per giocare l’Indiana Course, non è necessario aggiungere, alle borse con i ferri ed al telemetro, un contatore Geiger…
Oltre alle pietre del deserto sono ben predisposti, intralciando in qualche modo i giocatori, numerosi bunker, per lo meno ben tenuti, e tutti i ‘green’ del campo sono all’altezza di un percorso adatto all’European Tour. Una volta terminato il ‘course’, la prima buca 19 può essere rappresentata dal proprio ristorante nella Club House, El Torrente, dove si può assaporare una gustosa cucina, con buoni vini (il ristorante ha vinto nel 2022 il Premio Traveller’s Choice di Tripadvisor). A circa 20 minuti dal resort si trova sul mare il paesino di Garrucha, famoso in tutta la Spagna per i suoi ‘gambones’ o ‘gambas’ (si distinguono per la grandezza) autoctoni e simili alle specie dei gamberi o gamberoni rossi del Mediterraneo (come quello di Palamós), ovvero gustosissimi. Ricordo anche di aver peccato fortemente di gola (e non in pensiero, parola od omissione) degustando un’enorme aragosta proprio sulla costa di Almeria (decisamente al top del ranking storico personale che, per fortuna, è decisamente ricco e internazionale). Presso il porticciolo sportivo di Garrucha posso senz’altro consigliare, dopo decenni di esperienza, il classico ristorante Rincón del Puerto. Per un ambiente più ‘chill’ consiglio anche il Borakai Beach, dove servono anche, praticamente in riva al mare, una deliziosa ‘paella’. Vicinissimo a Garrucha si trova l’emblematico paese di Mojacar, una Positano andalusa. Con qualche campo da golf… di cui forse scriverò in un prossimo quaderno.
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